Senza la poetica dei murales Orgosolo sarebbe un banale paesone incastrato tra le grinze dell’omonimo supramonte: una periferia greve di caseggiati rettangolari, un pre-centro con piazza e parcheggio, un modesto corridoio pedonale che attraversa il vero centro e sfocia in una seconda piazza, un filo più alta, dove attardarsi a guardare un panorama di roccia piuttosto ordinario.
Ma i murales ci sono, e parecchi, tanto da spingere molti visitatori a noleggiare un’audioguida che li illustri, come ha fatto questa famiglia francese, padre, madre, figlio adolescente, figlia adolescente. Li interpello mentre, ognuno con la propria cuffietta, stanno assorbendo origine e significato di una riproduzione del Guernica picassiano sulla facciata di un negozio di souvenir: l’audioguida si affitta all’ufficio del turismo nella piazza alta, cinque euro, italiano e inglese, ci fosse anche il francese il padre sarebbe più contento, però si sente bene, la selezione è interessante e i murales sono spiegati nel dettaglio. Sto per capitolare e dotarmi di trasmettitore e cuffia, poi penso che la mia voracità di informazioni mi obbligherebbe a rintracciare pure il più insignificante dei graffiti segnalati e ad ascoltare ogni singola virgola di ogni singola descrizione, girovagando per Orgosolo ben oltre il tempo stanziato. Che sia allora l’istinto a guidarmi, e pazienza se perderò qualche murales imperdibile.
Privo di riferimenti storico-artistici, rimbalzo da un muro all’altro del paese, attratto ora da una poesia pacifista di Rodari corredata da colombe e mani colorate, ora da un impietoso confronto tra i padri fondatori del Socialismo – Pertini, Turati, Parri – e i loro svergognati eredi degli anni Ottanta – Craxi, De Michelis, Amato – ora dalla rappresentazione feroce della società capitalistica, ritratta come una piovra dispotica, alienante. Salvo rare eccezioni, i murales sono composti da immagini e parole, e seguono tutti un percorso sotterraneo di idealismo, rivendicazione civica, protesta politica per lo più intrisa di egualitarismo e condanna dello sfruttamento, che sia delle donne, degli operai o dei contadini. Tra i tanti che stimolano a riflettere, uno mi si appiccica addosso, la raffigurazione di Gramsci – capoccione, occhialetti, cappotto – accompagnata da una sua frase: l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, perciò odio gli indifferenti. In un contesto così antibellico, quasi spirituale, stona la parola “odio”, che rimanda comunque a una certa aggressività sentimentale, eppure non posso che aderire totalmente allo spirito della citazione, al concetto neanche troppo velato di come dietro ai più devastanti drammi dell’umanità, alle dittature, alle stragi, vi sia l’indifferenza di chi quelle dittature, quelle stragi, ha permesso che prendessero corpo.
Lungo il corridoio pedonale del centro e nei meandri tortuosi delle sue diramazioni in salita, sono frequenti gli episodi lirico-retorici, alcuni anche toccanti. Come il messaggio di Zlata da una Sarajevo sotto assedio, tra le cui frasi elementari, affiancato da due margherite, brilla questo passaggio: non si può rimproverare di vivere a una bambina di dodici anni! In Bosnia non ci sono stato, però ricordo bene i buchi nei muri delle case croate al ritorno da una vacanza nell’isola di Hvar. Era il 1998, la guerra dei Balcani terminata da quattro anni ma mai davvero finita.
Liriche sono anche Maria Grazia e Giuseppa, non tanto per l’aspetto, dimesso e sfuggente, quanto perché quadro nel quadro. Sono sedute su un muretto di pietra, immobili, mentre alle loro spalle scorre un suggestivo murales al femminile, tre donne in abiti sardi occupate in attività domestiche d’altri tempi. Col loro abbigliamento obsoleto, con la loro fissità espressiva, Maria Grazia e Giuseppa sono entrate nel disegno, che ne ha assorbito la densità corporea, lasciando grondare quella simbolica: le donne incollate al muro ora sono cinque, in una stupefacente fusione estetica e generazionale. Sì, perché, oltre al nome, Maria Grazia e Giuseppa mi rivelano che due delle tre donne ritratte sono le loro madri. E che il murales l’ha dipinto il marito di Giuseppa, scomparso da poco; il marito di Maria Grazia invece è vivo e non tarda a palesarsi.
Gianfranco Collu è un bell’uomo sui settanta, carabiniere in pensione, laureato in Legge a Sassari quando i laureati in Sardegna erano un’anomalia sociale. Si racconta con piacere e con altrettanto piacere racconta di Orgosolo, in mezz’ora con lui imparo della città più che se consultassi una Lonely Planet. Apprendo di Graziano Mesina, ricercato dalla giustizia e da sempre latitante nelle grotte del supramonte, appena fuori dal paese. Della rivolta dei pastori orgolesi allorché uno Stato tiranno ha cercato di imporre lo sgombero dai pascoli per impiantare una base militare – mi sono imbattuto in diversi murales che esaltano quella vicenda. Apprendo della micro-criminalità giovanile locale, la malavita evocata dai vecchi di Urzulei; della predilezione per i furti d’auto e di come gli adulti di Orgosolo abbiano risolto il problema a suon di ceffoni ai figli. Non mancano i riferimenti personali, come l’ampia pagina circa l’acquisto della casa adiacente il muretto di pietra, ottenuta barattando un appezzamento di terreno a Siniscola. È prodigo di particolari su ogni capitolo della vita propria e di Orgosolo, Gianfranco; riserva però speciale enfasi alla narrazione dell’epica pastorale, dall’allestimento degli alpeggi alla convivenza con capre e pecore, dalla produzione del latte alla tosatura. Per indottrinarmi al meglio, mi conduce davanti a un altro murales, una curva e dieci gradini sopra il dipinto vivente di madri e figlie. Questo è strutturato in due parti, una sorta di dittico urbano: a sinistra un componimento in sardo – più precisamente in logudorese, la lingua della Barbagia – che Gianfranco traduce e arricchisce di didascalie; a destra una scena agreste di pastore con animali, dal tratto decisamente approssimativo ma dal consistente valore testimoniale. Esaurita la lezione etnografica, prima di salutarci il mio Virgilio menziona Francesco Del Casino, principale artefice della trasformazione di Orgosolo da anonima cittadina montana a borgo dipinto.
Proseguo il cammino nella pinacoteca a cielo aperto e, di murales in murales, raggiungo un cancello oltre il quale si è assiepato un discreto numero di persone in quello che sembra il piazzale di una scuola o di una caserma. Sono sedute su spalti di cemento, in attesa. Interrogo un poliziotto di presidio: tra poco il piazzale ospiterà la commemorazione di Banditi a Orgosolo, un film del 1961 di Vittorio De Seta, manifesto cinematografico della cultura sarda, barbaricina in particolare. Canteranno i tenores locali e parlerà Francesco Del Casino, nientemeno. Mi unisco agli spettatori, ascolto i tenori, ascolto Del Casino. Scopro un uomo sorprendente il quale, nonostante l’evidente considerazione, a tratti adorante, da parte degli organizzatori dell’evento e del popolo orgolese tutto, appare completamente scevro da narcisismo e vanità. Sa di aver regalato un’identità al paese, che conduce a Orgosolo migliaia di turisti ogni anno, ma ne parla come se fosse stata l’inevitabile conseguenza di una vocazione naturale, una missione quasi. Del Casino è approdato in Sardegna da Siena a metà anni Sessanta, con l’incarico di insegnare Educazione artistica in una scuola media. Verso la fine del decennio, sulla scorta delle forti pulsioni politiche del ‘68, alcuni gruppi anarchici hanno cominciato a decorare le pareti di Orgosolo. Nel 1975, forte dell’attività parallela di pittore, Del Casino ha convinto il Comune a celebrare i trent’anni della liberazione dal nazi-fascismo estendendo all’intero tessuto urbano la presenza di murales, stesi pressoché interamente da lui stesso e dai suoi allievi. Il risultato è quanto sto ammirando da un paio d’ore, una lunga, silenziosa, appassionata preghiera laica fatta di testi utopici e disegni surreal-cubisti, non necessariamente belli, ma gonfi di senso.
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