Brutti sporchi e cattivi, come in un film di Scola. Sono i gatti randagi di Sa Binza, hanno colonizzato il giardino e diffondono terrore: a farne le spese il cane di casa, Macchia, un bastardino inerme cui uno dei gatti corsari ha mezzo cavato un occhio. Col pelo giallognolo, il muso sporcato da una voglia cacao e quel bulbo penzolante dall’orbita, Macchia incute simpatia e cordoglio, perfetta rappresentazione animale dei membri umani del clan Piras.

Sono tre, Raffaella Mario e Valeria, rispettivamente madre padre e figlia, allegri, loquaci, immediatamente confidenziali: la simpatia. Ma erano quattro, i Piras, lo si capisce appena entrati, appena lo sguardo cade sulle foto incorniciate di un ragazzo troppo minuto e pallido che intasano il comò dell’ingresso. Me lo dirà Raffaella, Antonio era cardiopatico ed è morto tre anni fa, a ventinove anni: il cordoglio. È stato Antonio a immaginare e avviare il B&B, loro l’hanno ereditato e si prodigano affinché trasudi ospitalità, affinché renda onore all’adorato figlio e fratello.

A Sa Binza ognuno svolge un ruolo specifico: Valeria dipana la matassa di prenotazioni, check in e check out – è rientrata da Hannover per questo; Mario fa finta di curare il giardino ma preferisce di gran lunga intrattenere, dispensare aneddoti estratti con maestria e scarsa verosimiglianza dalla lunga militanza come pescatore e contadino, meglio se accompagnati da un bicchiere di vernaccia (un robusto vinaccio locale che imparerò mio malgrado ad apprezzare nei giorni oristanesi e di cui accuserò l’indigesta pesantezza durante la cena di commiato dal Sinis).

Raffaella è l’anima della famiglia, pur dividendosi tra faccende di casa e ospedale, pare esserci sempre. Sui sessanta, fa l’infermiera a Oristano, di quelle spicce ma sensibili, pragmatiche ma premurose, qualità indovinate osservandola gestire gli ospiti e proiettandone i modi sui pazienti. Come sostituisce in fretta la lampadina fulminata in bagno, come recupera una prolunga per consentirmi di scrivere al pc direttamente in veranda – in entrambi i casi indossando un sorriso sornione – così, con la stessa sollecitudine complice, sono sicuro che Raffaella provvede a svuotare padelle e a imboccare vecchiette ultracentenarie in corsia (poi magari tra un paio d’anni si scoprirà che c’erano lei e le sue iniezioni dietro alle strane morti improvvise nel reparto geriatrico del San Martino e dovrò rivedere le mie valutazioni).

Dimostra anche perspicacia, Raffaella: ieri sera, alle dieci e mezza, dopo che migliaia di cactus mi avevano scortato da Ingurtosu a Sa Binza come il popolo di New York scorta gli eroi della maratona, la donna ha colto la fatica che evidentemente grondavo dagli zigomi – ero digiuno, reduce da 311 km di sudovest sardo, carico come un mulo dell’Ogliastra – consegnandomi subito al letto, rinviando all’indomani documenti e convenevoli. Quei convenevoli ora allargati a piacevole conversazione, dato che ho deciso di trascorrere l’intera mattinata nella verandina della mia camera, a chiacchierare, a scrivere di Sa Binza, a smaltire l’acido lattico mentale di un 18 agosto davvero spossante.

Mezza giornata del 19 agosto passa dunque così, si parla, si solidarizza per la perdita di Antonio, si conoscono Mario e Valeria, si spiano gli altri villeggianti. E si cerca di dare a tutto ciò dignità di racconto.

Il materiale narrativo non manca, di fianco a me sverna una coppia di bolognesi decisamente in cerca d’autore; sono al quinto soggiorno a Sa Binza, in pratica tornano qui ogni estate da tre anni e talvolta pure d’inverno. Lo vengo a sapere da Raffaella in un momento di loro latitanza già che, nonostante i pochi centimetri che ci separano, di prima mano per ora dai due non estorco molto, stanno parecchio guardinghi e abbottonati – sbracheranno però senza ritegno nella cucina dei Piras durante la mia ultima sera a Baratili San Pietro.

Sull’altro lato, a due camere di distanza, una famigliola francese, genitori bretoni o normanni e figlio biondo intorno ai cinque anni; disertano la veranda, ogni tanto escono e sono grandi sorrisi muti.

Alle 12 e 30 lascio Sa Binza per Baratili San Pietro, Sinis finalmente: con Raffaella ci siamo detti quanto possibile tra due estranei al primo giorno di conoscenza, ed è già moltissimo; la vernaccia di Mario l’ho assaggiata, a piccoli sorsi, a mo’ di Spritz (dimenticavo, la fa lui, nel senso che pigia proprio l’uva come Celentano nel Bisbetico domato, operazione artigianale che di certo non aiuta a snellirne la corposità); bolognesi e francesi li ho salutati, i gattacci schivati – non ero comunque io il loro obiettivo bensì l’occhio sano di Macchia – è tempo di perlustrare il territorio, soltanto annusato nell’oscurità di ieri sera.

C’è un sole pulito che smaschera la mediocrità del luogo, alla luce Baratili San Pietro sfoggia strade sconnesse e un’accozzaglia di insignificanti casette per lo più costruite dagli stessi proprietari – lo si capisce dall’aura di incompiutezza che le avvolge. Una di queste ospita un alimentari, Da Antonia (che sia un alimentari lo so grazie alla dritta di Valeria, il negozio è privo d’insegna e si mimetizza perfettamente nella giungla pseudo-residenziale intorno a Sa Binza). Dentro è talmente spoglio da apparire assai più spazioso di quanto sia realmente, un bancone pressoché vuoto, la cassa, due frigoriferi. E un ragazzo, la cui riservatezza potrebbe essere scambiata per indifferenza, se affrontata senza il filtro di una prolungata commistione con la gente di Sardegna.

Il compito del ragazzo è servirmi ma c’è ben poco da servire: cerco frutta, hanno solo mele. Pane? È rimasto mezzo filone di grano duro dall’aria tristissima. Sui salumi l’offerta migliora, peccato sia tutto confezionato e sigillato nei frigoriferi. Evado dallo stanzone ricco di sei bottiglie d’acqua naturale e nient’altro: vediamo cosa ci portano domani, le ultime parole del ragazzo.

Per ora la cosa più bella di Baratili è il fico della casa accanto all’alimentari, fichi grossi turgidi a portata di braccio: eccola, la frutta di oggi.

Ci sono due Sinis, il Sinis di San Vero Milis e il Sinis di Cabras, i borghi pigliatutto tra i cinque che marcano questa penisola a muso di cavallo appesa sul golfo di Oristano. Pur essendo entrambi lontani almeno dieci chilometri dal mare – come Narbolia, Baratili San Pietro e Riola Sardo – San Vero Milis e Cabras estendono la propria giurisdizione fino alla costa, monopolizzando il primo le spiagge del Nord intorno a Capo Mannu, il secondo quelle del Sud che scivolano verso Capo San Marco; lasciando briciole di territorio agli altri tre paesi – per dire, Narbolia si affaccia sul mare soltanto grazie alla sterminata pineta di Is Arenas, a Riola Sardo spetta una fetta di falesia tra Putzu Idu e Mari Ermi, scenografica ma poco fruibile; Baratili l’acqua non la vede proprio, confinato com’è all’interno.

Due centri dominanti dunque, se però dovessimo indicare la “capitale” del Sinis, beh, Cabras, senza dubbio.

Cabras ha quattro volte gli abitanti dei comuni vicini, le principali attrazioni archeologiche – i Giganti di Mont’e Prama ospitati nel museo civico e la città antica di Tharros – uno stagno salmastro tra i più grandi d’Europa, le sabbie iconiche, quelle con i chicchi di quarzo; e il suo litorale è area marina protetta dal 1997. Senza considerare la penisola nella penisola, Capo San Marco.

Storia natura arte, e pesca agricoltura vino, al Sinis non manca nulla; tuttavia, in una mia personale graduatoria di meraviglie sarde, sebbene superiore al Sulcis-Iglesiente, lo metto un gradino sotto Costa verde e Ogliastra: è una questione che definirei psico-morfologica, io amo le terre increspate, nervose, terre di dislivelli e cavità dove le contorsioni della strada chiamano a raccolta quelle dell’anima, denunandole; dove mi innalzo e mi inabisso, dune immacolate e gole minacciose – Piscinas, Su Gorropu, per capirci.

Il Sinis è piatto, uniforme, largo: ideale per maramaldeggiare col Beverly, non una curva, una salita, una galleria, ma alla lunga noioso (intendiamoci, noioso se paragonato a quanto di unico e stupefacente ho visto sull’isola, incommensurabilmente attrattivo al confronto col 90% del territorio padano in cui sono intrappolato per il resto dell’anno).

Raffaella mi ha confezionato l’itinerario perfetto, non posso non vedere Sa Mesa Longa, Is Arutas, Capo San Marco, S’Archittu; e Putzu Idu, San Salvatore, Maimoni, Is Arenas: è tutto a mezz’ora massimo di scooter. Sì, ma quale di questi paradisi è il più vicino a Baratili? Mari Ermi. E Mari Ermi sia, è giorno d’interludio, di resettaggio organico, da domani si rifà sul serio.

La schiena ancora dolorante – non aiuta che tra me e il bauletto siano incastrati l’ombrellone preso in prestito a Sa Binza e la sediolina da spiaggia comprata da un senegalese a Sant’Antioco, sediolina che rimarrà miracolosamente intatta fino al rientro a Legnano – in questa scomodità nomade inforco la sp 66 che punta orizzontale la costa. Al bivio per Putzu Idu cambio di Provinciale, ora a tagliare il Sinis ci pensa la sp 7, stavolta in verticale; sono solo numeri perché intorno il paesaggio resta lo stesso, immensi campi di grano bruciato e canali d’irrigazione asmatici, aumenta giusto la quota di salsedine via via che mi avvicino al mare. Altro bivio e si torna orizzontali, in un intreccio di sterrati e sentieri poderali non mappati che pare una canzone degli U2, quella dove le strade non hanno nome.

Senza preavviso ciò che sembrava infinito finisce, l’asfalto regredisce a terra battuta, il delta caotico dei viottoli confluisce in un parcheggio: l’acqua dev’essere al di là di quelle dune basse e pelose, se ne sente il respiro.

L’acqua c’è, la solita, banale acqua di Sardegna, qui ancora più celeste; sennonché il fascino di Mari Ermi – e di Is Arutas, Corrighias, Sa Canna, Maimoni, insomma l’intero litorale che una decina di chilometri dopo precipita a Capo San Marco – sta nella sabbia: granelli bianchi e rotondi di quarzo come sale grosso, come riso, brillanti di sole. Un tappeto soffice su cui ho quasi paura a camminare tanto è prezioso – neanche abbondanti depositi di sottili alghe giallastre riescono a contaminarne il candore.

Con cautela, attento a non incrinare quelle gemme, pianto l’ombrellone arcobaleno di Sa Binza, tanto storto quanto provvidenziale nella canicola odierna; poi spiego la sediolina e leggo, è da un po’ che non lo faccio.

La sera l’ho passata a S’Archittu.

A S’Archittu arrivo su consiglio di Raffaella. L’dea era di cenare a Cabras, bighellonare tra le sue viuzze e rientrare in tempo per incamerare almeno nove ore di sonno in vista del tour a Tharros della mattina dopo. Sì, ma Cabras è un paesone, un paio di chiese e poco altro, e poi non c’è il mare; se mi sbrigavo a S’Archittu vedevo il tramonto dalla costa.

Non prendo per oro colato i suggerimenti della gente del posto, sono inevitabilmente filtrati da gusti personali, conformismi geografico-culturali – a Torino non si può non vedere il Museo Egizio – o rivalità di campanile – prova a chiedere a un fiorentino se Piazza dei miracoli merita una visita. Sicché di solito li integro con quanto letto sulle guide o segnalato da fonti affidabili per comunanza d’interessi, e non di rado li cestino. Ma di Raffaella mi sono fidato, S’Archittu è frazione di Cuglieri quindi nominalmente neanche Sinis, se mi manda in terra straniera ne varrà davvero la pena (oltretutto non ricordo nessun amico decantare le bellezze di Cabras).

S’Archittu deve il nome all’arco di pietra che misteriosi fenomeni erosivi hanno formato al centro di un basso promontorio mezzo chilometro a nord del centro abitato: bello, non eccezionale. La miglior versione di sé l’arco la offre appena prima che il sole decida d’illuminare altri angoli di pianeta: dall’omonimo punto panoramico si vede una palla scendere lentissima fino a spuntare al di sotto dell’arco, nell’ovale di cielo tra pelo dell’acqua e pietra; la si ammira galleggiare in quel buco per una manciata di minuti, poi scomparire in un trionfo d’arancio.

Spettacolo quasi mistico che ahimé mi perdo. Già, perché il tramonto lo vedo dalla spiaggetta del ristorante Alta marea, lontano quel tanto che basta dall’arco per mancarne la congiunzione col sole.

Ora, Raffaella cara: mi storni da Cabras e va bene, non è Alghero e neanche Castelsardo; mi obblighi a infrangere una dozzina di articoli del Codice della strada sulla ss 292 Nord-occidentale Sarda, e va bene, ammetto di essermi divertito. Ma se mi spedisci a S’Archittu senza informarmi che al tramonto bisogna muoversi dal centro e piazzarsi di fronte all’arco – la palla che scende, la palla che spunta, la palla che galleggia – beh, non fai altro che rafforzare la mia circospezione verso i suggerimenti dei residenti, nel caso di specie peccando del classico “come so io che al tramonto si guarda l’arco, lo devi sapere anche tu”. E no, io non lo so e non lo posso sapere, vivo in una galassia aliena dove la cosa più simile agli archi sono i cavalcavia delle tangenziali.

Cioè, venissi tu a Legnano nei pressi dell’ultima domenica di maggio, io te lo direi che per le strade si snoda una sfilata in abiti medievali a commemorazione della sconfitta del Barbarossa per mano di Alberto da Giussano, ti direi di puntare lo stadio Mari per non perderti il palio tra le contrade, coi cavalli che s’azzuffano e s’azzoppano nel pantano del campo da calcio. Insomma, ti segnalerei le modeste attrazioni della mia città, ma nel dettaglio, indirizzandoti là dove da sola non andresti… vabbè, stupido io, viaggio da decenni e ancora tralascio di approfondire le confidenze degli indigeni.

Tramonto all’Alta marea quindi, per carità, mille volte meglio che sull’Olona, perfino durante il palio – e i moscardini in umido erano pure buoni. Sennonché il giorno dopo è stato piuttosto deprimente guardare su Facebook le foto ritoccate di ciò che avrei potuto contemplare dal vivo e che invece ho a malapena scorto nella semioscurità del crepuscolo – la palla immersa ormai da tempo nel mare – dopo aver seguito accidentalmente la breve passeggiata costiera dal ristorante fino al belvedere.