Dio mi aveva creato nudo, tra le gambe un manicotto smilzo e gommoso che non aveva più significato di un gomito o di un lobo. Per ragioni adulte rinchiusero il manicotto in una coltre di ovatta pelosa, mentre il gomito e il lobo, e l’alluce e l’ombelico, volteggiavano giocosi nell’aria. Insofferente a tanta censura, cercavo di liberarlo e innaffiare di vita il mondo, ma la coltre pelosa si riproduceva e l’acqua santa bagnava me, rendendo il mio mondo umido e stagnante. L’ovatta scomparve quando imparai a frequentare da solo una stanza piena di strani sedili bianchi e manopole da girare, che scrosciavano altra acqua, meno santa.

In quegli anni di prima autogestione, avrei potuto ribellarmi al contenimento coatto del manicotto. Avevo acquisito il controllo del mio impianto idraulico e avrei potuto e dovuto capire che la gabbia di cotone a righine colorate non svolgeva una funzione contenitiva, bensì ideologica. Avrei potuto e dovuto captare le pruriginose istanze alla base della rinnovata cattività del manicotto. Le tensioni autarchiche erano però acerbe: anziché lasciare che perlustrasse curioso il cosmo come un gomito o un lobo, lo isolai dal resto del corpo, conferendogli una rassicurante specialità, ma condannandolo a compiacere un appiccicoso moralismo. Seppur lontano l’avvento di una blanda forma di piacere, giocare col manicotto divenne assai più divertente che trastullarmi il gomito o il lobo. Il timore di essere scoperto esaltava la dimensione eversiva dello svago, più simile al brivido della disobbedienza che alla realizzazione di tensioni autarchiche.

Arrivò il piacere e il gioco finì: pubertà, adolescenza e giovinezza eressero maestosi bastioni intorno al manicotto. Meno smilzo e gommoso, impartiva ordini che mani e lingua eseguivano con diligenza; convinto di comandare, in realtà ostaggio inconsapevole dei pudori borghesi ereditati dai carcerieri di famiglia. E di nuove gabbie di cotone, stavolta firmato. Il mio destino prese a coincidere col destino del manicotto: nascosto dietro la maschera di un’ostentata autodeterminazione, ero prigioniero io quanto lo era lui. Il corto circuito tra credermi padrone di me stesso e sentire di non esserlo affatto non poteva durare a lungo; nell’ombra, stavano maturando le inespresse pulsioni irredentiste dell’infanzia. Come sempre nelle rivoluzioni, ci fu bisogno di un simbolico gesto di emancipazione. Portai il manicotto in una spiaggia dimenticata e lo liberai dalla costrizione del tessuto. Rimase al sole e al vento per ore, sorridendo ai gomiti e ai lobi, respirando l’ossigeno salmastro, rinnegando quarant’anni di esilio.

Quell’impudenza cambiò il rapporto col mio corpo. Da allora, ogni volta che posso, ritorno allo stato neonatale. Non molte, le occasioni offerte dai granitici tabù mediterranei, ci sono però accoglienti calette d’estate e, d’inverno, casette di montagna dal legno chiaro in cui si diffonde un caldo insopportabile e salvifico. Le chiamano saune finlandesi.

Ne ha una il presepe incantato dove sto svernando il Natale, e ieri mi è venuta voglia di arrostire tra i suoi novanta gradi benedetti. Nei centri benessere dell’Alto Adige la nudità integrale è consentita, spesso imposta, tanto che gli ospiti muniti di costumino sono in minoranza, oggetto di benevolo compatimento. Terre evolute, di secondo nome fanno Sud Tirolo, figlie naturali di quell’illuminata civiltà mitteleuropea, che avrà pure partorito qualche innocuo dittatore coi baffi, ma che di certo non ha paura di un corpo nudo. Nelle saune della Valle d’Aosta, invece, si ha cura di coprirsi le parti intime e chi sgarra viene esposto alla pubblica riprovazione. Ieri la gogna è toccata a me.

Entro nella piccola spa di Antagnod, Val d’Ayas, e una matrona biondiccia mi fornisce asciugamano, accappatoio e infradito. Una breve visita allo spogliatoio, poi mi trasferisco in zona relax, dove calamito gli sguardi di un ometto bolso e un ragazzo sui venticinque. Con consumata sapienza scenica sfilo l’accappatoio e indugio, in modalità orientamento. Al vedermi senza slip, gli occhi dei due si zavorrano di sdegnata incredulità e, quando mi siedo sulla panchetta – a gambe larghe, perché così si sta nella sauna finlandese – schizzano fuori dalle orbite. L’abitudine alle occhiate melliflue mi fa ignorare le loro, la mia attenzione è tutta concentrata sulla paradisiaca tortura dell’aria rovente e sull’immanenza del mio corpo nel mondo.

Al termine dei canonici quindici minuti di cottura, esco dal forno, riavvolgo lo scandalo nell’accappatoio e mi dedico a Foster Wallace. Mezz’ora dopo punto l’idromassaggio, dove da circa quaranta minuti ruminano semi-incoscienti una mulatta di mezza età e una dodicenne filiforme, la protezione della cui innocenza scatenerà i disordini successivi. Le fisso a lungo, ma l’insolenza dello sguardo non scalfisce l’inerzia delle due donne, che continuano a galleggiare tra le bolle, decise a sviluppare pinne e branchie. Mentre tolgo l’accappatoio, rassegnato alla condivisione della vasca e agli sfioramenti di piedi e ginocchia, l’adulta si ridesta, cala gli occhi bovini sulla metà bassa del mio corpo e fugge, trascinandosi dietro la ragazzina, chiaramente sua figlia; poco ci manca che le metta una mano davanti agli occhi. Tanto meglio, ho l’intera vasca per la mia pericolosa nudità. Mi rimesto nel tepore dell’idromassaggio poi migro all’esterno, c’è una tinozza di legno che esala un vapore denso e appetitoso, frutto dell’incontro sulfureo tra aria gelida e acqua ribollente. Per raggiungere quel dolce inferno passo davanti alla matrona biondiccia.

«Signore, mi scusi.»

Beccato!

«Vorrei ricordarle che il regolamento del nostro centro prevede l’uso del costume in tutti gli ambienti, per rispetto di quei clienti a cui può dare fastidio la nudità integrale.»

Beccato e cazziato!

Con scarsa convinzione biascico che mi dispiace, di aver turbato la serenità degli ospiti, ma non sapevo del divieto. E che ora mi è impossibile, ma la prossima volta indosserò il costume: integrale, come i nuotatori. La battuta rimane in canna, in virtù della recente avversione verso qualsivoglia complicazione relazionale. La matrona annuisce soddisfatta e mi concede di uscire a sconcertare la valle.

Nella tinozza incandescente macerano i soggetti maschi incontrati in sauna. Provo a distrarli dai miei attributi avviando una fiacca conversazione in un inglese impervio; apprendo che i due sono brasiliani, padre e figlio, e che il resto della famiglia sguazza nella zona relax – le anfibie scappate dall’idromassaggio! La chiacchiera langue: scemato anche l’inevitabile dibattito sulle differenze di accento tra il portoghese di Rio e il portoghese di Lisbona, abbandono tinozza e compagnia latina per il tepore della spa. Rosolo un’altra dozzina di minuti in sauna, poi l’idromassaggio vuoto mi costringe a un ultimo tuffo: solo, nudo, beato.

Al momento di pagare, rivestito, pungolo la matrona sulla trama del thriller Chi mi ha denunciato per atti osceni in luogo pubblico? Dietro la rigorosa custode dell’etica locale si nasconde un’amabile pettegola: un paio di complimenti alla sua acconciatura e la matrona confessa che la segnalazione è partita dall’erbivora carioca, perché scioccata dal mio ingresso brutale nella vasca e dall’ostensione dell’apparato riproduttore alla figlioletta immacolata. Al che mi chiedo: mezzo Brasile è popolato da indios che vagano nudi per l’Amazzonia. I vostri riti tribali abusano del corpo in ossequio a una selvaggia spiritualità pagana. Avete il carnevale più sconcio del pianeta. E mi rompi i coglioni se per tre minuti rimango come Mamma m’ha fatto davanti a te e a tua figlia?

Esco da quel ricettacolo di bigotti, disgustato ma con un luminoso proposito in testa: niente viaggetto a Bahia l’anno prossimo, piuttosto biglietto di sola andata, destinazione Lapponia.