Il bubbone sul seno ieri non c’era, o forse c’era e non l’ho visto, con questo trapano nel cranio che perfora la lucidità. Mi desse tregua almeno di notte, dormirei qualche ora, non avrei lo sguardo da rimbecillita e Sebastiano non mi fisserebbe come una bambola di pezza. E Gianni pure potrebbe dormire, invece di svegliarsi ogni volta che le martellate alle tempie svegliano me, e per distrarmi accendo la televisione o bevo o mi trascino in bagno al buio. Optalidon, Novalgina, Toradol non servono a niente, se non ad avvelenarmi il fegato. È un’emicrania misteriosa, nessuno capisce da dove arriva; tutti, però, escludono che gli artigli della bestia abbiano già ghermito il cervello: tac e risonanza parlano chiaro, metastasi lì non ce ne sono, quindi non drammatizziamo, sarà il Plasil, sarà la postura, continuiamo la terapia e su signora con un bel sorriso. Intanto c’ho una bolla incandescente nella testa, in cui galleggiano pensieri incoerenti e allucinazioni, e che solo a tratti si sgonfia, concedendomi di ragionare con uno straccio di logica. Peccato che i momenti di grazia non coincidano con le visite dei miei figli.
Il bubbone è grosso, porca miseria: più grosso dei due sulla schiena, rotondi come ceci sottopelle; più grosso perfino di quello all’inguine. Come ho fatto a non accorgermene? Se comincia a farmi male? Se devo prendere gli oppiacei per tamponare le fitte? Le droghe non le voglio, mi precipitano in una progressiva incoscienza; più le assumo, più ne dipendo, più si sfarina la capacità di concentrarmi su attività elementari. Non mi va che finisca come un mese fa, quando mi hanno dato la morfina perché la chemio era sospesa e dicevano che il dolore sarebbe stato più forte della volontà e degli analgesici. Voglio riuscire a guardare un film, leggere un articolo, assecondare le lamentele di Stefano. E chiacchierare con Gianni, poveraccio, costretto a fare da tassista e infermiere, senza il piacere di scambiare due parole con la moglie. Ché già parlarmi è un’impresa, doversi zittire all’improvviso e tendere l’orecchio in modo da percepire quel filo di voce che esce a fatica dalla bocca: non è una conversazione, è un atto di carità per farmi credere di essere ancora ascoltata.
Devo tenerlo d’occhio, il bubbone, mi pare che negli ultimi cinque minuti si sia ispessito, fammi guardare meglio, fammelo toccare: no, non lo tocco, sennò s’ingrandisce sul serio. Perché ogni giorno mi esce un bozzo sul corpo? Forse dovevo dar retta a Sebastiano: lui me l’aveva detto, di rinunciare alla laringe, dai Mamma, via tutto, che, se c’è ancora del marcio, gli impediamo di andare a far danni in giro; sì, non avrai più la tua voce naturale, dovranno metterti la macchinetta in gola e parlerai come attraverso un grammofono guasto; ma ti sentiremo meglio di adesso, e la priorità è arginare il tumore. Io non li volevo, quell’affare sul collo, il microfono e il resto, mi pareva di staccare un pezzo di me: con la voce c’ho insegnato, ho sgridato i figli, ho telefonato a mia madre e a mio fratello. Certo, il mio timbro non esiste più, non ci sono corde vocali che vibrano, le parole sono soffi bisbigliati, come quando si fanno i commenti al cinema; eppure è un suono che produco io, non un impulso elettrico amplificato e robotico. Se solo Gianni, che il sussurro non lo capta mai, avesse l’abilità di Sebastiano nel leggermi le labbra, parlargli sarebbe meno umiliante. Ma Gianni si è stancato, anche per lui ormai sono una malata terminale.
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