Il 29 settembre 2016 cominciò la vita senza mio padre. Sul sagrato della chiesa di San Bernardino alla Valera, mentre uomini in nero ne infilavano la cassa dentro un veicolo deforme, decisi di smettere di scavare fossati e provare a somigliargli, anche a costo di violentare l’orgoglio.
Cinque anni prima era iniziata la vita senza mia madre, e da allora io e Babbo avevamo conquistato metri e metri di complicità, passeggiando spesso lungo il recinto della sintonia. Ci avevano aiutato alcuni viaggi – Verdone e Sordi, Mastroianni e Troisi, Enea e Anchise – durante i quali ci eravamo inoltrati nei luoghi e nelle storie dei Negro prima del mio avvento. Avevamo spiato la casa romana di un Luigi ragazzino in via Forlì; il palazzo dei Nonni di via Bartolomeo Piazza; il convento dove alloggiava Mamma ai tempi dell’università. Avevamo scherzato su un Luigi innamorato che nel portafoglio custodiva – non l’avrebbe più tolta – una foto sciantosa di Laura in bikini su un lungomare qualsiasi di un’Italia da Lambretta. Entrambi avevamo approfittato di quei film itineranti, io per conoscere l’uomo nascosto nel padre, Babbo per gustarsi un figlio rinnovato, ripulito delle antiche rappresaglie.
Nell’estate del 2011, una delle nostre fughe ci condusse tra i marmi del cimitero di Badia Polesine, poi a Loreo, dove mio padre era sfollato con la famiglia in seguito all’armistizio del 1943. La cappella di Badia ospitava nonna Elena, nonno Giovanni, zio Fabrizio – tre quarti dei Negro-Pavari – e la stirpe di Elena fino ai trisavoli, nobili esponenti delle casate venete dei Miotto e dei Barzan. Due loculi erano ancora vuoti, ma Babbo non avrebbe fatto compagnia a genitori, fratello e antenati: lui e Mamma avevano scelto di stare insieme anche dopo, coppia di urne di altezze e colori diversi, bronzo e blu, una accanto all’altra sotto una lapide obliqua nel cimitero di Valera, di fronte alla casa che li aveva visti felici più a lungo.
A Loreo prendemmo possesso di un camerone in una pensionaccia umida e scrostata. Sfatti i bagagli, c’imbarcammo su una chiatta che, tra canneti, aironi e fari imprigionati dalla costa, trascinò la missione padre-figlio lungo il delta del Po, verso un mare salmastro e remoto.
Il giorno dopo stimolai Babbo a ricordare l’esatta posizione della casa in cui aveva abitato dai tre ai tredici anni, prima che lo spedissero in collegio a Verona. Le gambe funzionavano ancora, la memoria però era già nel mirino del Parkinson – che poi Parkinson non era – e rintracciare quel vecchio caseggiato rosa antico divenne un’impresa: ripercorremmo più volte il lungofiume finché mio padre riconobbe l’incrocio delle vie, la geometria dei palazzetti, lo snodo della campagna. La ricerca si restrinse a tre villotte affiancate: Babbo si sforzò di captare una vibrazione, di decrittare un dettaglio decisivo, ma erano troppo simili per candidarne una a posto delle fragole; non restava che interpellarne gli inquilini e sperare in un’epifania.
Snocciolare al citofono l’epopea dei Negro-Pavari richiede una certa sfrontatezza, mi armo della profondità vocale più seducente e premo il primo pulsante. Dopo un minuto di monologo, quando sto riconsiderando il mio carisma, il diffidente falsetto che mi ha risposto apre il cancello. Entriamo in un arioso giardinetto liberty e compare il segno che cercavamo: di fianco all’ingresso, massiccia e immobile, campeggia una panchina di pietra grigia, la stessa su cui siede un Luigi bambino in una foto seppiata degli anni del suo Polesine. Bingo! Un attimo dopo la voce esce dalla porta e prende le forme di una matrona rodigina sui settanta che infioretta ogni parola coi ghirigori del proprio accento. Non sta lì da molto, ma i vecchi proprietari le hanno parlato di una famiglia romana scappata dalla guerra. E il cerchio si chiude.
Il pellegrinaggio a Loreo, le incursioni a Roma, le salite al Lago Maggiore, le discese a Silvi Marina avevano evidenziato il ferreo autocontrollo di mio padre, la generosità ai confini della prodigalità, il rispetto sacro degli altri di cui accettava ogni ombra; con l’unica eccezione di quando mi accusò di avere la testa da chitarrista, nel significato deteriore di scarsa attitudine al lavoro, idealismo di facciata e pure una certa promiscuità.
La speleologia genealogica aveva anche rivelato somiglianze insospettabili: sapevo, sentivo, di avere nel dna la forza di volontà di Babbo, quella che lo aiutò negli anni del Parkinson – che non era Parkinson, bensì un parkinsonismo di origine neurologica – quella che aiutò me nei mesi del seminoma; ma non avrei mai scorto in lui le radici della mia implacabile sete di libertà se, dalle narrazioni davanti ad arrosticini e anguille, non fosse emerso un Luigi inedito, capace di slanci anarchici, ribellioni e frequenti manovre di aggiramento dell’autorità lavorativa e familiare: Luigi, l’Herr Negro tanto benvoluto per dedizione e disciplina dai tedeschi in ispezione alla Bayer di Garbagnate Milanese; Luigi, il Gigiotto così accomodante nei confronti dell’indiscussa tirannia domestica di Mamma.
Fu bello scoprirmi simile a mio padre. Alle affinità caratteriali il tempo ha aggiunto i lasciti fisici: oggi mi guardo allo specchio e vedo la spalla sinistra di Babbo, più alta della destra, la sua concentrazione pilifera sul torace, la lunghezza delle sue orecchie, il tubero al posto del naso; perfino la forma ovaleggiante degli occhi e il colore ibridato di verde muschio e castagne. Non un clone, ma chiaramente suo figlio.
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