Siano benedette le foto che tappezzano queste pareti! Mamma, con me e Gianluca piccoli in spiaggia. Nonna, con me e Gianluca ragazzi in pizzeria. Babbo, con me undicenne sul lettino. Io, Mamma e Nonna, con sua sorella nel convento di Pescara. La sorella di nonna Licia si chiamava Francesca, suor Francesca, ma per tutti era Checchina, e per me la zia pallida che mi baciava freneticamente sulla guancia prima di offrirmi la cedrata. Osservo le foto e me ne riempio gli occhi perché oggi, dopo due settimane, lascio l’Abruzzo, la terra di mia madre e della madre di mia madre, e voglio che i loro visi s’incollino alla memoria.

Sono passati quarant’anni da che i miei comprarono questa casa: era il 1978 e la consueta lungimiranza li portò a preferire le radici di Silvi Marina ai cavalli della Maremma e al rosmarino della Liguria. È la prima volta che ci vengo da solo. Due settimane fa avevo un po’ paura: dei ricordi, della monotonia, della solitudine. Ma Babbo è stato sempre lì, sulla sdraio blu della terrazza, i piedi nudi appoggiati sul balcone a scandagliare il mare come un capitano di vascello. E Mamma è stata sempre lì, in cucina, a farcire panini da mangiare sotto l’ombrellone: ci volevo il prosciutto o lo spuntì al tonno? Nonna non c’è mai stata invece, perché in spiaggia dalle sette di mattina: chiacchiera con la collega maestra di Avezzano, poi camminata sul bagnasciuga per la messa delle 9 a San Domenico, poi ancora chiacchiera con la moglie del commendatore.

Green Marine Residence

No, non mi hanno lasciato solo. Neanche quando ho mangiato gli arrosticini sulla strada da Montesilvano a Penne, che gli indigeni chiamano il “Chilometro lanciato”. Qui c’è ancora il locale aperto nel 1972 da Carlo, che a me fa finta di riconoscermi, ma i miei se li ricorda di sicuro: che gli dei del castrato non lo facciano mai chiudere! Non sarebbe facile sostituire quelle tovaglie pesanti a scacchi, quelle sedie impagliate, il suo occhio acuto e il cestino che ospita il cartoccio con gli spiedini d’agnello.

No, non mi hanno lasciato solo. Ho fatto pochi bagni perché con l’età sto diventando idrofobo e il mio orecchio sinistro, bucato dalle troppe otiti, imbarca acqua salata ad ogni schizzo; più che altro ho sguazzato al tramonto come un poppante in trenta centimetri di Adriatico limaccioso, che solo a duecento metri dalla riva comincia a sembrare mare. Ogni volta ho intercettato il richiamo acuto di Mamma che mi ordinava di uscire dall’acqua: ero dentro da mezz’ora, chissà che dita secche! Ogni volta ho guardato le pinne di Babbo inabissarsi a caccia di cannolicchi e cozze: era un anfibio, mio padre, e forte nelle braccia e nelle gambe, prima che il corpo lo tradisse. Se l’immersione era generosa, Mamma con le cozze ci faceva la zuppa. L’altra sua specialità erano le more, lavorate con zucchero e limone. «Namo a pija’ le more» diceva Babbo nel finto romanesco borghese di piazza Bologna, e i tre maschi Negro s’arrampicavano sulla provinciale per Silvi Alta, felici di sanguinare le mani tra i rovi. Come quando conquistavamo il molo di Pescara armati di canna, lenza e vermi. Lì il divertimento stava tutto nello stanare i granchi dagli scogli, perché la pesca era povera e i tre, quattro pescetti parcheggiati nel secchiello alla fine, per pudore, li ributtavamo in acqua.

No, non sono mai stato solo, e siano benedette, le foto alle pareti.