Non sono uno scalatore. Ho il passo lungo, alla Pippo Baudo, ottimo in piano, invalidante in salita. E mi manca il fiato: sui sentieri obliqui l’espansione forzata della cassa toracica mi provoca dolori allo sterno, come piccole coltellate. Se occasionalmente mi arrampico in montagna è soltanto per sfidarmi, vediamo se riesci a fare pure questo, forza! In certi casi il sacrificio è ripagato da quanto scorre lungo la Via Crucis, in altri da ciò che mi aspetta in vetta.

Il percorso dal Centro Visitatori del Parco Torres del Paine al mirador Base Las Torres rientra nella seconda categoria: quattro ore di cammino accidentato in balìa dei capricci del tempo giusto per ammirare le torri di roccia bruna in cima al sentiero, tanto iconografiche quanto dispettose.

Mancano cinque, sei tornanti di massi aguzzi e pietra sbriciolata, un quarto d’ora di Calvario ancora – almeno così garantisce un ragazzotto che sta rinculando dalla cima.

Tra chi scende e chi sale il sentiero è più trafficato dell’Esselunga la vigilia di Natale, da una mezz’oretta si è creata una specie di processione laica, centinaia di escursionisti in fila indiana avanzano a rilento verso l’epifania – non ci sono stato ma così mi immagino l’ultimo tratto del cammino di Santiago, Santiago di Compostela naturalmente. Nel frattempo ho smesso di salutare chiunque incroci nel senso opposto di marcia, prima il pacchetto cordialità prevedeva un hola e un sorriso, ora siamo in troppi e devo risparmiare fiato.

A poche curve dal traguardo la malasorte mi presenta un altro conto – nei frequenti momenti di autocommiserazione mi convinco che ci siano in giro tanti pupazzetti a mia immagine e somiglianza e altrettanti esseri umani a punzecchiarli con lunghi spilloni acuminati. Si è scaricato il cellulare, così, all’improvviso, cinque minuti prima segnava il 55% di batteria, cinque minuti dopo il 9, cinque minuti dopo ancora, cioè adesso, è deceduto, schermo nero e ditate di disperazione. Dev’essere lo squilibrio termico, l’altitudine, o gli spilloni: qualche anima cupa non vorrà che mi fotografi davanti alle torri, unico modo per dimostrare all’universo che ci sono stato.

È quindi quasi un sollievo vederle avvolte dalle nuvole, le torri, allorché, grufolata la ripida sassaiola finale, piombo incredulo sulla sponda del laghetto in cui bagnano i piedi. Niente di imprevisto, in rete fioccano le testimonianze degli sventurati che sono approdati qui all’alba – l’alba sul Paine, un orgasmo per gli occhi – e intorno avevano solo bianco, come lo sfondo neutro di un set fotografico. A me almeno è toccato il privilegio di qualche cromatismo, il laghetto turchese, la riva giallastra, la corona di cime visibili amaranto; solo le torri si nascondono, schive.

Un sole anemico e una calma di vento creano un vago tepore cui cerco di dare maggiore consistenza rintanandomi nell’incavo di una roccia. Messi a stendere su rocce minori i panni fradici di salita, mi godo la parzialità del panorama, piuttosto fiero di me. Se le anime cupe cesseranno di martoriare i pupazzetti, forse si paleseranno anche le torri, e magari la batteria di scorta avrà ricaricato il cellulare in tempo per cogliere l’attimo fuggente: io che sogghigno ebete in posizioni improbabili, alle spalle la sagoma completa delle tre montagne, tre giganteschi canini smaniosi di azzannare il cielo.

Per ora l’unico spettacolo lo fornisce la ragazza con cui condivido l’incavo della roccia, si sta facendo decine di autoscatti – sì, selfie, si chiamano selfie, scusate i rigurgiti vintage – abilissima nell’aprirsi di colpo in un sorriso da proposta di matrimonio e rinserrarsi in un’espressione serissima, rabbuiata, appena scattata la foto (ho sempre invidiato il talento mimetico di chi come lei offre all’obiettivo la propria versione migliore, io posso impiegarci anche un minuto a indossare una smorfia plausibile da tramandare ai posteri, qualcosa di sornione e innocente insieme, di studiato ma spontaneo. E raramente porto a casa il risultato).

La ragazza possiede automatismi perfetti, incazzata quando schiaccia il bottone rosso del telefono, raggiante quando riecheggia il clic, di nuovo incazzata quando controlla la foto.

A osservarne la plasticità facciale quasi non mi accorgo che una sapiente folata di vento ha allontanato le nuvole dalle torri, ora ammirabili nella loro interezza.

Eccolo, l’attimo fuggente!

Il cellulare è salito al 2%, il tempo di accenderlo e sicuro si rispegne: urge coinvolgere la showgirl.

Si chiama Natalia, viene da La Serena, 500 km sopra Santiago, in quella parte di Cile che già occhieggia ai deserti terrosi del Nord. È qui da sola, le piace camminare in montagna, da sola – sottotesto, uomo europeo che hai osato rivolgermi la parola e interrompere i selfie, ne hai ancora per molto?

Tranquilla Natalia, non intendo prenderti in sposa e neppure avviare una simpatica amicizia, non amo le donne dall’incazzatura perenne. Ti sto molestando in quanto proprietaria di un iPhone evidentemente bello carico, iPhone che con estrema generosità potresti utilizzare per immortalarmi insieme alle torri scoperte, fintanto che lo rimangono.

Natalia mi scruta, come me le manda le foto, nel caso?

Capisco che scambiarci i cellulari, e poi sfruttare quella nuova piattaforma di chat – come si chiama, certo, WhatsApp! – per inviarmi i preziosissimi documenti, a te suoni come un fidanzamento seduta stante, io che mi trasferisco a La Serena, produciamo un paio di marmocchi meticci e un’infinità di selfie sotto l’albero di Natale. Ma le nuvole stanno tornando, ragazza dal broncio intermittente, se non ci sbrighiamo la tortura di parlarci non sarà servita a nulla.

Gli scatti di Natalia sono pessimi, sembro un cartonato, il nano di Amelie, quello piazzato in primo piano fuori contesto a certificare la presenza dei padroni nei luoghi fotografati. Mi faccio furbo, per ringraziarla mi offro di confezionare io un mini book a Natalia, la quale un attimo dopo è in posa, attrice protagonista, la dentatura irregolare tutta in mostra.

Il book viene benissimo, ecco, ora potrebbe farmi lei un paio di foto con la stessa inquadratura, una in verticale per il mondo, una in orizzontale per la cornice digitale del tinello. Avviene il miracolo, Natalia rispetta le consegne e finalmente la mia permanenza al mirador Base Las Torres non pare un fotomontaggio.

Archiviate le foto, la nostra conversazione è pressoché esaurita, abbiamo ottenuto entrambi la ribalta che volevamo; solo uno strascico, la promessa di Natalia di spedirmi le immagini stasera dall’albergo, quando avrà connessione – l’auspicio è che non ci arrivi troppo incarognita, in camera, che il mio faccione sullo schermo non le risulti così molesto da cancellare tutto, torri comprese.

Lo scambio di cortesie con la ragazza cilena – ci siamo fotografati a vicenda col suo cellulare davanti alle tre torri – e il gradevole microclima che nel frattempo ha riscaldato l’anfiteatro del mirador, generano la fallace convinzione che i miei pupazzetti sparsi per il cosmo al momento, per ragioni misteriose, siano risparmiati dall’aggressione degli spilloni; che i miei carnefici si siano distratti, abbiano altro da fare.

Approfitto dell’insperata bolla di autodeterminazione per mangiare un panino alla sottiletta locale e godermi la vista delle torri, ancora sorprendentemente nitide. Già che il cellulare sta ricrescendo di carica in fretta, penso perfino di scendere al laghetto e trastullarmi di selfie, emulando le decine di potenziali blogger che anziché guardarlo danno le spalle al maestoso panorama, perché intenti a guardare se stessi nel telefono.

Ed è proprio nel momento in cui scivolo dalla roccia all’acqua che qualche anima empia si accorge del mio pupazzetto abbandonato sul comodino, sulla credenza in cucina, sul divano – stranamente incolume – e riprende a trafiggerlo, con più foga di prima.

Il vento s’imbizzarrisce di colpo, nuove nuvole coprono le torri, l’aria precipita nei pressi dello zero termico nonostante un flebile, ostinato alone di sole da ovest.

È bufera e io ne sono al centro, privo di riparo, con addosso un maglione e la T-shirt delle Hawaii. Mi allontano dal lago, ora increspato di onde come squassato da isteriche correnti sotterranee, e lottando contro le raffiche gelide riguadagno la protezione della roccia. Ma il vento ha cambiato direzione e invaso il mio rifugio, non resta che unirsi agli altri naufraghi raggrumati più su dietro un enorme masso triangolare.

Qui il vento antartico pare darci tregua, sennonché ha ripreso a nevicare, l’aveva già fatto per un’oretta durante il sentiero: neve leggera, che svolazza a lungo prima di toccare terra; pur sempre neve però, e io sono ancora in maglione e T-shirt, e quel poco che rimane di vestiario asciutto si trova nello zaino a una trentina di metri da me.

Di polmonite mi sono già ammalato nel 2009, una seconda esperienza più vecchio di tredici anni potrebbe essere letale, tanto più che sento gli spilloni accanirsi sulla carne. Non ho alternative, abbandono il cast di Lost e le folate tornano a schiaffeggiarmi.

Rotolo fino alla mia roccia, il vento ha ricambiato verso e l’incavo ora è meno esposto, non a caso è stato occupato da un quartetto di americani provvisti di guida indigena – stanno sorseggiando qualcosa e chiacchierano come in un bistrot parigino.

Io rovisto nello zaino a caccia di una canotta di lana da sovrapporre alla T-shirt, ma non sento più le dita e sbottonarmi il maglione con una specie di zoccolo al posto della mano è impresa da illusionista. La guida cilena si accorge della mia incipiente ipotermia – difficile ignorare qualcuno che sbuffa, trema, batte le mani, poi le sfrega nevroticamente sulla tuta, poi ricomincia a battere le mani – e mi offre una tazza di thè rovente.

Mentre il liquido prova a scongelarmi il sangue, la mano sinistra perde ulteriore sensibilità, in particolare l’indice non risponde più agli stimoli tattili, come toccare un tubo di ferro.

L’ho già provato, il terrore di perdere una falange, ai Laghi Pinter, Valle d’Aosta orientale: anche lì quattro ore di cammino diagonale, anche lì temperature intorno allo zero, anche lì uno specchio d’acqua, anzi due, improvvisamente violentati dal vento; anche lì un continuo battere le mani senza nulla da applaudire – la parodia mal riuscita dei romanzi di Jack London, quelli in cui si muore assiderati in Alaska.

Allora riacquistai l’uso delle dita dopo dieci minuti di metodico accaloramento, adesso ne sono passati venti e il cilindro di metallo che ha sostituito l’indice sinistro non accenna a irrorarsi di ossigeno. Istintivamente lo immergo nel thè ancora caldo, poi lo ristrofino sulla tuta, poi di nuovo nella tazza, con la vaga consapevolezza di peggiorare le cose: è che ho studiato codici e costituzioni, non biologia, e mi affido all’elementare ragionamento per cui se il dito è freddo occorre scaldarlo: ma davvero si risolve così, l’ipotermia?

Dalla consistenza lignea della falange, dal suo colore biancastro, il tuffo nel thè non pare il rimedio più efficace. Un conato di lucidità mi impone di riafferrare i bottoni del maglione, estrarli uno a uno dalle asole, sfilare le braccia dalle maniche, raccogliere la canotta, incollarla alla T-shirt delle Hawaii, reinfilare il maglione, riannodare i bottoni alle asole; il tutto senza l’ausilio della parte finale delle dita, come obbligare uno gnu a cucire.

La faticosissima aggiunta di uno strato di lana e la più agevole di altro thè nello stomaco probabilmente alzano di un paio di tacche la mia temperatura corporea, le dita a poco a poco si ricongiungono alle mani scongiurando lo spauracchio di vederle sormontate da uncini per il resto dei miei giorni.

Ringraziata dell’aiuto la guida, rassicurato il quartetto sulle mie condizioni – le loro facce trasudavano preoccupazione un po’ autentica un po’ figlia della meccanica empatia americana di fronte alla sofferenza altrui – raccatto l’abbigliamento disperso per la Patagonia, mi bardo come per raggiungere Zanna Bianca nello Yukon e lancio un’ultima occhiata alle Torres del Paine: se ne scorge solamente la base, il resto è gelatina grigia; tanto meglio, se si apprezzassero le vette, pianterei le tende sine die sulla battigia del lago a rubare immagini alle torri, in balìa del vento e della neve; e allora sì che tra una decina di secoli una colonia di alieni si domanderebbe a quale razza inferiore appartenesse la mummia di mammifero trovata avvolta dentro a un piumino Quechua ai piedi di bizzarre montagne dentiformi, le mani a stringere un rudimentale rettangolo nero in evidente gesto di preghiera pagana.