Da due giorni sono ospite di Amanda: sui settanta, scattante e civettuola col suo rossetto e gli occhiali alla Jackie Kennedy, Amanda è la regina incontrastata della casa. Parla uno spagnolo cileno credo incomprensibile agli stessi cileni, figurati a me, oltretutto borbotta rapidissima mentre si sposta da un angolo all’altro dell’abitazione, contesto ideale per la mia ipoacusia cronica. Ma è talmente disponibile, servizievole, solerte, Amanda, che scatta una sorta di empatia telepatica, come mi avvicino lei intercetta i miei desideri, evitandomi di spiegarglieli faticosamente a parole.
La casa è un ibrido suggestivo, divani di pelle abrasa, credenze di legno scuro, tende di pizzo, pendole e piastrelle aranciate: metà sala d’attesa di un odontoiatra metà soffitta della nonna. Pezzo da novanta la stufa a legna, un parallelepipedo di ghisa piazzato in salotto di fronte al corridoio delle camere. Insieme a televisione e divano di pelle nera compone il trittico dell’area relax, da dove sto scrivendo – si sta bene qui, nel tepore della stufa, in un silenzio fuligginoso insidiato da qualche abbaio di cane e dalla tivvù di Amanda che bisbiglia telenovelas dalla cucina.
Per colazione Amanda prepara il mucheche – lo scrivo come l’ho capito – una torta base burro con pezzi di frutta rossa e crosta di mais, morbidissima e muy, muy rica (che sta per molto, molto buona). Poi l’ovetto strapazzato, il caffelatte, il formaggio e panini caldi con marmellate home made, ho riconosciuto albicocche e, credo, amarene. Il tutto accompagnato da un servizio da thè bianco, anacronistico, di quelli che ti regalano i cognati al matrimonio e te ne disfi al primo trasloco; su un tavolo rotondo a doppio strato, tovaglia all’uncinetto sotto, plastica trasparente sopra per non rovinarla.
Ho ancora una notte da Amanda, se mi volessi più bene di quanto già me ne voglio disdirei le prossime prenotazioni cilene, b&b, escursioni, aerei, traghetti, bus, e affitterei sine die una camera al Residencial Darka, per sedermi di fianco alla stufa a legna e scrivere il romanzo della vita o la storia di Amanda, che potrebbero anche coincidere.
Ma il progetto di accamparmi in Patagonia per un annetto presenta piccole controindicazioni, tipo non mangiare pasta per un anno, disinfettare il bagno condiviso per un anno – qui il water lo chiamano “inodoro”, suona bene, non è vero? – ghiacciarmi i coglioni al freddo della camera per un anno, o quantomeno per nove mesi buoni. E suonare il campanello ogni volta che rientro a casa, già che Amanda non fornisce chiavi agli ospiti. Peccato, il divano di pelle accanto alla stufa stava prendendo la forma delle mie natiche, come i materassi memory.
Dunque dovrò lasciare Puerto Rio Tranquilo: mi rimarrà nel cuore, un posto amico, dove ho perso la dimensione del turista per trascendere a residente, ancorché temporaneo ed estemporaneo – lo stesso accadde ad Urzulei in Ogliastra, a Portmagee in Irlanda, a Boston. Non solo, da Puerto Rio Tranquilo è partita una delle spedizioni cilene più entusiasmanti, la conquista della laguna San Rafael.
L’itinerario per raggiungerla potrebbe dissuadere anche gli esploratori compulsivi, quelli che in un giorno fanno il giro dell’Umbria a piedi: sveglia alle 6, incontro con lo staff di Destino Patagonia alle 6 e 50, partenza in camionetta alle 7, puntualissimi.
Si scivola lungo la strada X-728 – detta “de los exploradores”, guarda un po’; tortuosa e sterrata, guarda un po’ – penetrando le foreste tra Puerto Rio Tranquilo e l’oceano. Messa così sembra romantica e anche breve, in realtà sono due ore di anse, dossi, sobbalzi, scossoni, un flipper prima del tilt.
La X-728 finisce nel nulla, meglio, nel fiume, il Rio Exploradores, riguarda un po’. Cambio di mezzo: ci trasferiscono su una lancia a motore, quindici posti a sedere al chiuso in stile saletta di cinerassegna, poppa aperta con panche per inondarsi di sole e vento, tetto panoramico la cui vera gloria arriverà in coda al viaggio.
Oltre al mezzo, cambio di autista: se alla guida della camionetta c’era Diana, ragazzotta locale taciturna e dalla vescica tenera – dopo mezz’ora ferma il pulmino e sgattaiola dietro una frasca per pisciare – al timone della lancia, ribattezzata La Certeza da qualche sadico buontempone, c’è Edoardo, che pare un deejay, un giocoliere, uno shakeratore di cocktail, tutto tranne che un pilota di motoscafi patagonici.
La Certeza fila via sul Rio che è uno spettacolo, dici, mezz’oretta siamo alla laguna, macché, altre due ore, buona parte però passate sulle panche di poppa a fotografare il fotografabile, ché intanto il gelo della primissima mattina ha lasciato il posto a un solicello emaciato.
Al termine di un lunghissimo tratto rettilineo, aggirata l’ultima ansa del fiume, l’incanto: enormi blocchi di ghiaccio, comunemente chiamati iceberg, si sono dati appuntamento nello stesso luogo alla stessa ora. Sono azzurri e alieni, azzurri per le bolle d’aria all’interno, alieni perché se non li vedessi non me ne figurerei l’esistenza – un po’ come la canzone dei Bluvertigo, “se non esistessero i funghi, riusciresti a immaginarli?”.
Galleggiano alla deriva, orfani del San Rafael da cui si sono separati da poco.
È qualcosa di elettrizzante, puoi anche pensare che in fondo si tratta di semplice acqua solidificata, un fenomeno fisico presente tutti i giorni nei nostri freezer; ma poi li guardi, maestosi, lucidi, erratici. Vivi, in qualche modo, vivi; e un banale processo di congelamento sublima in meraviglia, quasi spirituale.
Sono talmente numerosi, gli iceberg, che neanche mi accorgo del ghiacciaio, là, sulla sinistra, ancora lontano ma già in scena.
Il ghiacciaio San Rafael: gli grava sulle spalle un’enorme responsabilità, quella di surrogare la solennità del Perito Moreno. Inizialmente infatti l’idea era di spostarmi a El Calafate e ammirare il celebre ghiacciaio argentino, la sua vastità, la sua altezza. Poi ho deciso di dedicarmi solamente al Cile, tanto più che la Patagonia cilena ha più ghiacciai che abitanti.
Dunque San Rafael e non Perito Moreno: se quest’ultimo è strabiliante come dicono, lo scoprirò in un eventuale prossimo viaggio tra le Pampas; per ora posso dire che il suo fratellino cileno toglie il fiato.
Via via che Edoardo avvicina la lancia al suo fronte, il ghiaccio pare avanzare verso la laguna in cui è immerso. E si cominciano a sentire i boati dei pezzi che si staccano e precipitano in acqua. Finché siamo talmente vicini da vederli staccarsi, i pezzi. Colossali. Interi palazzi di ghiaccio franano come al rallentatore, alzando nuvole bianche che, come i lampi il tuono, preannunciano l’imminente schianto. Edoardo decelera, fa il giocoliere o il barista però lo sa che deve mantenere la lancia a distanza di sicurezza: se a staccarsi è una sezione davvero troppo ampia, c’è il rischio di un mini tsunami in grado di sommergerci.
Dunque stazioniamo a quello che sarà un chilometro dal ghiacciaio, adesso in piedi sul livello più alto della Certeza – eccolo il momento di gloria del tetto panoramico. Il tempo si è fermato e sono in balìa della mindfulness perfetta, non ho un passato, non ho futuro, sono qui, ci sono ora, il mio è solo presente, ogni organo del corpo confluisce nelgli occhi, gli occhi sono appiccicati al ghiacciaio San Rafael.
Dopo credo due ore d’ipnosi, durante le quali mangio un pastel de choclo – una polenta con cipolle e manzo – e bevo liquore locale rinfrescato da cubetti di ghiaccio raccolti direttamente dall’acqua, Edoardo rincula la lancia verso il Rio Exploradores.
Si torna a casa. Lo show però non è finito: il caldo del pomeriggio ha sciolto gli iceberg più grandi, generando uno sciame di mini iceberg che hanno invaso la laguna, tanto da costringere la Certeza a una problematica gimcana per non urtarli.
Non solo, la deriva della corrente ha trasportato il ghiaccio ben oltre il punto in cui l’abbiamo intercettato all’andata, alcuni blocchi sono arrivati fin quasi al porto dove abbiamo lasciato la camionetta, come se volessero imbarcarsi con noi per Puerto Rio Tranquilo.
Sedotto da tale surreale bellezza, trascorro l’intera traversata di rientro a poppa, il vento a sbatacchiarmi la testa, il sole a cuocerla, unico all’esterno dei nove passeggeri. Mentre sfilano gli ultimi iceberg, sprofondo in un dolcissimo, etereo letargo emotivo, vagamente consapevole che stasera, dal rincoglionimento, a stento ricorderò il mio nome – il che è del tutto marginale già che si tratta di futuro, e io adesso voglio impregnarmi tutto di presente.
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