Quando piove il New Hampshire resta sorprendentemente suggestivo. Stamattina sarebbe in lista un’incursione nel Vermont ma non ho voglia di sobbarcarmi tre ore di highway per ammirare dozzine di granai sotto il diluvio. Peccato, perché col Vermont salta anche l’idea di calpestare i sei stati del New England. Va bene così: dopo quattrocentosettanta miglia in tre giorni una pausa raffredderà il motore vecchio di mezzo secolo, prima di ripartire.

Scelgo di passare la mattina alla finestra sgocciolante della camera, lasciando al pomeriggio l’esplorazione di North Conway, che non è Santa Monica e nemmeno Portland, ma che scoprirò rappresentare il New England verace dei centri commerciali, della birra e dell’hockey al bar. Per un po’ scrivo e studio il traffico sulla 16 North, poi bussa la fame e mi trasformo in turista residente, quello che si mischia alla popolazione locale. Sull’altro lato della strada c’è il Chef Bistrò, un grazioso ristorante che ha in menu bresaola, formaggi francesi e altre sciccherie europee. Consumata una Caesar’s salade, faccio ciò che urge fare da giorni: trovare un pc su cui scaricare le centinaia di foto e video che intasano la memoria di Samsung e GoPro.

Chef Bistro

La reception dell’Eastern Slope Inn Resort, dove alloggio, mi nega l’accesso ai computer, le porte usb sono bloccate, Sir. Entro allora da Staples, una specie di Mediaworld: non offrono questo servizio, ma posso rivolgermi alla Conway Public Library, la biblioteca del paese. Seguo il consiglio del commesso, tanto obeso quanto gentile.

Si pensa che gli americani siano ignoranti. Se prendiamo l’Homer Simpson dell’Arkansas la teoria regge, benché sia come tarare la cultura dell’italiano medio sul venditore di Folletto. Se però consideriamo il rispetto che da queste parti nutrono verso i libri, la presunzione iniziale evoca un certo nostro snobismo, figlio della immeritata coincidenza di essere nipoti di Michelangelo e Verdi. La Conway Public Library non a caso è un gioiellino. Le sezioni sono quelle delle nostre biblioteche – area studio, area giornali, area computer – ma tutto è più accogliente, si sparge perfino un aroma di torta alla cannella. Il fiore all’occhiello è lo spazio marmocchi: la quantità di giocattoli, peluches e libri illustrati è imbarazzante, viene voglia di rinascere bambino di North Conway, tanto più che mancano pochi giorni ad Halloween. Lascio Gardaland e cerco aiuto per l’operazione “Liberiamo la memoria dei miei device”. S’interessa al mio caso un quarantenne in maglioncino ruggine, con fervore, come se da ciò dipendesse il destino dei curdi. Ma le sue competenze tecnologiche non sono pari all’impegno ed esco senza aver svuotato alcunché.

Nel rientrare in albergo, un’apparizione: bagnato dalla pioggia, identico a quello che ho braccato ieri nel Maine, alla mia sinistra si srotola un ponte coperto, incantevole e a cinque minuti da casa: che sia l’Hemlock Bridge? Imbocco la stradina parallela alla 16 North e lo penetro, maledicendo la mia demenza. Verso le sei riguadagno la camera per una merenda a base di dolcetto alle arachidi. A Legnano questa delizia da Grant’s Shop & Save mi disgusterebbe: qui, chissà perché, non mi dispiace.

North Conway

A differenza dei giorni scorsi, stasera ho abbastanza energie per ascoltare qualcuno che suona. Dal vademecum dell’Eastern Slope estraggo il country-pop della McGrath Tavern, specializzata in hamburgers e altre ghiottonerie vegane. Il McGrath mi accoglie con la sala ristorante che, come accade spesso in America, è paludata e semivuota; viceversa l’area bar è affollata e chiassosa. Mi ci tuffo e, conquistato uno sgabello, ordino un maxi hamburger al triplo bacon, impostandomi in modalità vivisezione entomologica dei presenti. Gli insetti locali non tardano ad avvicinarsi, timidi alle prime birre, ciarlieri oltre qualsiasi pudore quando belli pieni di Budweiser. Basta appoggiare il mio diario di viaggio sul bancone che si buttano nella conversazione come orsi sul miele: «Where do you come from? Oh, Italy! Wow!» Occorre aggiungere che il mio aspetto non può che dare nell’occhio, sono magro per i loro standard e riesco ad abbinare due colori insieme, sicché tutto intorno a me diventa “so amazing”.

Nell’avvicendarsi compulsivo di curiosi, mi si siedono accanto Carol e Caroline, che nel tempo di una mia birra prosciugano la scorta di vodka del McGrath. Caroline soprattutto, non a caso è lei ad attaccare bottone. Il duo country-pop sta facendo il suo a volumi inutili, per farsi sentire Caroline si protende verso il mio naso invadendone ogni papilla con l’alcool tiepido dell’alito: non proprio l’approccio che preferisco. Ma sono ospite di questo popolo ospitale, lascio evaporare il disagio olfattivo e comincio lentamente a interagire.

Caroline viene da Boston, con l’amica Carol a ottobre di norma si sposta in New Hampshire per un “lovely weekend”. Non ha visto l’Italia ma neanche il Grand Canyon. È divorziata, ha due figli tra i venti e i trenta ed è grassa, come tutti qua dentro. Temo di piacerle: non fosse grassa, sarebbe anche gradevole – lo si dice sempre delle donne grasse. Però, purtroppo, è grassa. Carol almeno compensa la mole con l’altezza, Caroline non arriva all’uno e sessanta. Quando i più o meno cinquant’anni della sua vita sono stati sviscerati e il mio interesse antropologico scema, Caroline tenta il colpo di coda biascicando qualcosa, che capisco poco ma suona come un invito erotico, del tipo: «Okay, non so una parola d’italiano ma so fare molte altre cose, vero Carol?» Mentre cerco una via d’uscita indolore per entrambi, il latin lover appassito che sonnecchia in me prova un sussulto d’orgoglio. Poi ripenso ai tanti film – Porkys, Thirteen, Love Actually – dove le americane appaiono sempre molto generose, e rimetto a nanna Rodolfo Valentino. A sorpresa, non c’è bisogno di fuggire: con la forza di un’evidente abitudine Caroline alza bandiera bianca e, dopo un breve parlottìo con l’amica, si scola l’ultimo Manhattan, recupera la borsa ed esce.

«Nice to meet you, Andrìa