Al volante del pulmino della Bochinche Expediciones c’è Alicia. Alicia riconcilia con la vita: perché è di una bellezza abbagliante, bionda vera, statuaria, un viso tra Grace Kelly e la Paltrow di Sliding doors; e perché ha scelto di ignorarla, la propria bellezza, ha scelto di fare l’autista in Patagonia anziché monetizzare il bendidio che Dio, appunto, le ha fornito, chessò, iscrivendosi a Miss Texas, vincendolo, recitando quasi sempre nuda in B-movies, sposandone i registi e arredando una fortezza dorata a Beverly Hills.

Alicia deve aver subìto un trauma precoce, una perdita, un’emorragia sentimentale, altrimenti perché trasferirsi da Houston a Futaleufù, a neanche trent’anni? Potrei chiederglielo ma la ragazza è traslucida, impermeabile alla mia petulante avidità di informazioni – parla pochissimo anche con i colleghi della Bochinche.

Il pulmino mi sta portando al Rio Futaleufù dove, a cinquantatré anni più che suonati, mi imbarcherò su un mini catamarano per attraversare una sequenza di rapide: si chiama rafting, e non ho neppure fatto testamento.

A bordo, oltre ad Alicia, una manciata di altri aspiranti suicidi. Il gruppo più nutrito viene dallo Utah: Mike Max Ian e ancora Mike viaggiano in moto; l’aspetto però più suggestivo, e confortante, è l’età, sono tutti prossimi al mezzo secolo, uno dei Mike lo ha addirittura oltrepassato. Intendiamoci, è motivo di enorme vanità risultare immancabilmente il più maturo – vecchio, dai – nelle diverse comitive cui mi aggrego, soprattutto quando in gioco c’è una performance psicofisica. Sennonché a volte mi piace subordinare l’orgoglio di competere coi ggiovani alla condivisione di pensieri, gusti, approcci esistenziali più stagionati e familiari: fare il ragazzino, adeguarmi a stilemi post-adolescenziali può essere faticoso e pure frustrante; ben vengano quindi gli statunitensi dell’Ovest con cui instaurare in fretta una facile sintonia generazionale, pur nelle voragini culturali che ci dividono.

Di fatto la simpatia scatta con Mike 1, il capo, mascella squadrata e capelli brizzolati da marines, gli altri tre ascoltano, vuoi per fascinazione verso uno stravagante esemplare di smaccata mediterraneità, vuoi per distrarsi dalla scomodità del sedile – il pulmino ricorda gli scuolabus della mia pubertà, con la non marginale differenza che nella Lombardia dei primi anni Ottanta le strade erano asfaltate e non venivo shakerato da buche e dossi.

Mike 1 fa più domande di me, non succede spesso, di norma sono io il morboso antropologo che raccoglie dati; tuttavia sembra farlo per galateo internazionale, ancora quella convenzione nordamericana per cui bisogna compiere la cosa giusta, e oggi la cosa giusta è interessarsi a me. La mia vita è intrigante ma non tanto da tenere viva a lungo l’attenzione di Mike 1, il quale alla decima domanda meccanica inevitabilmente si stanca di musica, bed and breakfast e ambizioni letterarie: molto più divertente tornare da Max, Ian e Mike 2, e ridere sguaiati di qualsiasi cosa riguardi la Patagonia, forse anche di me.

Scemata la conversazione con l’amico dello Utah, setaccio il pulmino a caccia di nuovi ascoltatori, non mi è dispiaciuto affatto raccontarmi – in Italia sanno tutto di me, ho perso ogni attrattiva, quando rientrerò al massimo mi chiederanno se mi è piaciuto il Cile. L’offerta è limitata, una coppia appena dietro Alicia – che guida serafica, padrona di ogni cunetta, di ogni macigno sulla strada – e due ragazze sui trenta che in mezz’ora di sterrato non si sono ancora scambiate una parola, come in attesa dell’avvocato durante un interrogatorio di polizia. Per raggiungere la coppia dovrei scavalcare la truppa americana, operazione decisamente complicata e passibile di ulteriori pernacchie, vada per le ragazze.

Mi spaccio per cosmopolita, uno dalla mentalità aperta, cultore dell’arricchimento personale attraverso il confronto con la diversità, e raffinatezze simili; ma rimango un borghese, conservatore e pruriginoso: nella mia testa le due non possono essere altro che amiche, o sorelle. E invece no, fanno coppia pure loro, in quel senso lì, e lo dicono con un tono talmente neutro da peggiorare il mio imbarazzo: si fossero risentite dell’illazione – amiche noi? e perché mai? siamo forse nell’Ottocento che due donne non possono avere una relazione? – mi avrebbero spalancato una via di fuga dialettica, per carità nulla in contrario, è solo che non è la prima cosa a cui pensi, la coppia lesbica, quando vedi due ragazze insieme (oltretutto neppure aderenti all’iconografia omosessuale, per dire, una tutta fiocchi e mascara, l’altra col taglio alla Bruce Willis e i bicipiti da wrestler).

Ma mi hanno inchiodato alla loro normalità, senza animosità, senza rivendicazioni vetero-femministe, loro stanno insieme, punto, sono io che devo farmene una ragione. Non a caso vengono dall’Australia e dall’Inghilterra, nazioni superiori, religiosamente evolute, dove peccare è arrecare danno agli altri, non a una pseudomorale retrograda e miope.

Di più dalle ragazze non riesco a spuntare, non ne cavo neanche un briciolo di curiosità nei miei confronti, ma certo, che gliene può fregare a due giovani anglicane di un vecchio bigotto e importuno?

Esaurito il momento di gloria e vergogna – ce ne saranno altri per entrambe – mi appiccico al finestrino a scandagliare la Patagonia. È un’enorme Valle d’Aosta, ma la parte bassa, quella tagliata in due dalla A5, l’autostrada per la Francia. Una Valle d’Aosta inondata d’acqua, non si contano i ruscelli torrenti fiumiciattoli attraversati da Alicia sfidando ponti arrugginiti e malfermi. Una Valle d’Aosta disabitata, una baita ogni tanto, una fattoria ogni tanto, una macchina – proprio soltanto una – dall’inizio del trasferimento al Rio Futaleufù, quarantacinque minuti fa.

Dopo altri venti di desolazione e scossoni arriviamo alla base operativa della Bochinche, sulla sponda del fiume. Qui avverranno vestizione, indottrinamento e partenza per il rafting.

La vestizione è passaggio fondamentale e Angel ha l’onere di illustrarcela: primo, spogliarsi del proprio abbigliamento, salvo mutande o costume – io ho i boxer lilla presi a Riccione. Secondo, pisciare o altro, è l’ultima occasione, in mezzo al fiume non si potrà fare (mi fiondo al cesso, pulito ma privo di carta igienica, fortuna che ho il mio fedele mezzo rotolo da escursione). Terzo, indossare muta calzari e salvagente forniti dalla Bochinche – muta freddissima, calzari larghi e salvagente confortevole come una camicia di forza.

Foto di rito con Angel e i compagni di patibolo, quindi selezione degli equipaggi: vengo abbinato a tre ragazzi greci con cui a fine rafting dividerò l’abitacolo di una Dacia per otto interminabili ore, destinazione Coyhaique. Soddisfatti i convenevoli di presentazione, ci consegniamo a Gabriel, il nostro Caronte.

Ora siamo sul mini catamarano, ormeggiato a una caricatura di molo fluviale. Stiamo ascoltando le istruzioni di Gabriel, impartite con la dolcezza del sergente maggiore Hartman in Full metal Jacket. Se Gabriel dice forward si deve remare in avanti, se Gabriel dice backwards si deve remare all’indietro. Se Gabriel dice stop, tutti fermi. C’è un quarto comando, get in, giù dal bordo e tutti dentro il catamarano, ma lo urlerà soltanto un paio di volte, a naufragio incombente.

Il momento più fastidioso dell’intera giornata – considerando tutto, pulmino, rapide, coabitazione coi greci – cade allorché Gabriel ci chiede di tuffarci nel fiume. L’invito è diretta conseguenza della nostra risposta affermativa alla domanda “sapete nuotare?”: non si fida Gabriel, vuole vederci sguazzare nel Rio Futaleufù e risalire agili sul catamarano.

Con l’acqua ho un rapporto di reciproca tolleranza – sarà per i timpani bucati che ne imbarcano litri quando provo a galleggiare, sarà per l’insofferenza verso tutto ciò che è bagnato (per dire, se lavo un bicchiere o un cucchiaio devo asciugarmi immediatamente le mani). Sicché traccheggio auspicando la benevolenza del sergente maggiore, il quale però trasforma l’invito in ordine e mi trovo immerso nel fiume gelido, con qualcosa di animato che mi sfiora la faccia.

Gabriel mi sollecita un paio di bracciate giusto per sincerarsi delle mie abilità natatorie, poi mi fa issare a bordo dai greci: se questo è l’antipasto, vien voglia di digiunare. È molto importante saggiare la nostra capacità di sopravvivere in acqua, perché non succede mai, ma nel caso succedesse – di essere sbalzati fuori dal catamarano per un’ondata troppo veemente – Gabriel non lo vuole avere un cadavere sulla coscienza. Non la dice così però si capisce che si sente responsabile della nostra sicurezza.

L’organizzazione della Bochinche Expediciones è tutta all’insegna della sicurezza, a partire dai briefing di Angel e Gabriel fino alla presenza dei soccorritori, un paio su altri catamarani, un paio incastonati dentro un kayak. Hanno il gravoso incarico di recuperare i naufraghi alla deriva prima che si schiantino sulle rocce o vengano inghiottiti dai vortici e risputati esanimi un chilometro più giù – non succede mai, ma se succede…

Tra i soccorritori spicca un perfetto Ken della Mattel, biondastro, prestante, poco cileno e molto wasp. È uno dei due in kayak, rimarrà tanto inoperoso sul fiume quanto operativo sul pulmino del ritorno: forte dei muscoli e della conterraneità – magari il ragazzo non è proprio texano, magari è di Seattle o Cleveland, sempre gringo comunque – si piazzerà di fianco ad Alicia e la stordirà di slang, convinto di scuoterne l’atarassia. Ma Barbie rimarrà muta e immobile, lo sguardo fisso sulla strada, io, quattro file dietro, gioirò della patetica impotenza del pretendente.

Le regole elencate, la squadra Bochinche in posizione, i passeggeri ai remi, è tempo di sfidare a duello il Rio Futaleufù.

Gabriel slaccia il catamarano dal molo e grida il primo dei mille forward della missione. Io e greci siamo il motore, lui il timone. Mulino le braccia eppure sento lavorare duro le gambe, il che mi conforta: dall’anno scorso alle Hawaii, quando stetti un’ora appeso a un canotto per fotografare le mante, sono afflitto da un’epicondilite al gomito sinistro piuttosto invalidante, tipo che a volte non riesco a trasportare le borse della spesa. In Cile mi ha dato tregua ma è sempre in agguato e il rafting non compare tra i rimedi consigliati dal fisiatra; rispetto agli avambracci dunque preferisco si stressino i quadricipiti, ché quelli sono ancora belli tonici, pur se provati dalla salita al vulcano di ieri.

Le cosce pompano in quanto hanno il compito di impedirmi il cappottamento in acqua. Mi spiego: la disposizione sul catamarano mi prevede appollaiato sopra il galleggiante tubolare di destra, i piedi infilati in due tasche cucite nella tela della parte centrale; per remare ai ritmi da galea romana imposti da Gabriel occorre sporgersi parecchio sull’acqua, senza l’equilibrio garantito dal puntello delle gambe sarebbe un attimo caderci dentro. E affogare, giacché il buon Ken mai riuscirebbe a ripescarmi in tempo.

Per un attimo invidio i ragazzi – ragazzi? – dello Utah, perché loro pagaiano in sei e non in quattro, su un gommone e non su un catamarano; poi penso che sì, la loro navigazione risulterà meno pericolosa e muscolare, però anche piatta, anestetizzata, che non è quanto mi aspetto dal Rio Futaleufù: mi aspetto adrenalina, secchiate d’acqua, rami in faccia, lividi, vuoti d’aria, perfino di vomitare – di nuovo. Quindi ben venga la razione in più di fatica imposta dal catamarano, se dev’essere rafting che sia rafting verace ed estremo.

Alla prima rapida arriva tutto, e tutto insieme.

Nonostante i forsennati forward di Gabriel, il catamarano derapa veloce verso l’argine, il ramo di un arbusto cileno mi schiocca sulla pelle come una frustata mentre precipitiamo dentro a un vortice d’acqua: mi investono ettolitri di fiume, riemergo zuppo in un ribollire di schiuma, il remo fuori controllo mi colpisce una spalla. Eccola, in dieci secondi, l’adrenalina – manca solo il vomito ma se ne può fare a meno.

Il copione si ripete per nove volte, tante le rapide del percorso; hanno nomi di animali, tiburon (squalo), guiña (una specie di gatto selvatico), toro. Le peggiori sono le due centrali, puma e pudù, un piccolo cervo patagonico, qui ai forward si alternano i backwards e un paio di get in, tutti dentro che sennò ci rovesciamo. Dopo ogni rapida, a mo’ di esorcismo della successiva, Gabriel strilla gimme five e noi, sfiancati, il cuore che sfonda il petto, alziamo i remi al cielo con uno yeah! liberatorio.

L’abbuffata di fibrillazione dura circa tre quarti d’ora, è il tragitto “puente a puente”, il più breve; a volerne ancora, di adrenalina, c’è il tratto seguente, ma il budget rafting si è esaurito e l’onomastica delle rapide è troppo sinistra anche per la nostra dissennata incoscienza odierna – “terminator”, “la cosa”, “infierno”. Sicché parcheggiamo il catamarano all’interno di un’insenatura e Gabriel ci invita, ci obbliga quasi, a tuffarci da una rupe alta un migliaio di metri, così, per celebrare l’impresa.

I primi due greci, pronipoti di Achille e Aiace Telamonio, si buttano in un lampo; io, figlio di un biologo del Polesine e di un’insegnante etrusca, studio terreno, dislivello, profondità del fiume, tenuta residua degli arti, poi, sfanculando l’oggettiva insensatezza del gesto, mi getto nel vuoto. Prima dell’insano atto incarico Thanasis, il terzo eroe greco che mi sta dietro, di riprendermi con la GoPro, affinché l’eventuale epitaffio sulla lapide, “Salutò tutti con un grande balzo”, sia suffragato da una cazzutissima testimonianza visiva.