Il 13 ottobre 2019 verrà ricordato come il giorno del mio primo lobster roll, un panino all’olio semibiscottato grondante polpa di astice. Succulento e a buon mercato, è lo spaghetto del New England atlantico, lo si trova ovunque. Io lo sto mangiando a Portsmouth, l’unica tappa rispettata dell’ambizioso programma odierno.

Nel mio patologico ottimismo, dopo il risveglio a Lisbona, la camminata tra le ruas, le sette ore di volo per il Massachusetts, le sei a ritroso causa cambio di fuso, il noleggio auto; dopo tutto ciò, con 167 miglia da coprire a non più di 80 km/h, avrei dovuto vedere Salem e le sue streghe, Hampton Beach, Portsmouth e cenare di granchio a Cape Porpoise, prima di unirmi finalmente alle White Mountains. La tabella di marcia, già impegnativa di suo, ha perso credibilità via via che mi sono avvicinato agli States, in seguito all’accumularsi di piccoli e prevedibilissimi incidenti di percorso: l’aver dormito a strattoni nel Bairro Alto per il terrore di perdere l’aereo, ad esempio; il riacutizzarsi del dolore al polpaccio durante l’avvicinamento all’aeroporto Humberto Delgado; l’amabile famigliola nordamericana – grandma, grandpa, mummy, daddy e i loro adorabili frugoletti che sul Boeing per Boston mi hanno azzannato i coglioni senza mai mollare la presa; il kubrickiano stordimento spazio-temporale al cospetto dell’Homer Simpson della Hertz nel tentativo di capire che lingua parlasse e quale carburante dovessi mettere nella Nissan; il successivo litigio col cambio automatico all’uscita dal Logan Airport.

Minuscoli granelli di sabbia in un ingranaggio altrimenti perfetto, che alle due del pomeriggio mi collocava riposato e pimpante a Boston – dove viceversa sono atterrato stanco e incazzato; e alle dieci di sera, visitato mezzo New Hampshire e pure un pizzico di Maine, mi prevedeva esausto ma appagato a North Conway – dove invece arriverò sì sfatto, sennonché deluso e sfiduciato per aver dovuto cancellare pressoché ogni meta in programma: tranne Portsmouth.

Portsmouth chiude a nord le circa venti miglia di costa del New Hampshire, degli stati del New England meno oceano lo vede solo il Vermont. Ci sono entrato alle cinque e mezza, in tempo per una passeggiata tra i mattoncini rossi del centro e un pallido tramonto alla foce del Piscataqua river, niente di davvero memorabile. E ora siedo al bancone di un diner nei pressi del porto. A darmi sollievo dalla desolazione del primo giorno americano, oltre al lobster roll, la gioviale compagnia di Eric e Rebecca, attirati dalla Lonely Planet in bella vista accanto all’astice. I due, sulla trentina, pur sembrando coppia, pur sfoggiando l’artefatta complicità delle coppie, non lo sono. Convivono, quello sì, ma solo per risparmiare sull’affitto, che a Portsmouth pare costare quanto un posto barca a Poltu Quatu. Hanno studiato al college, forse ad Harvard, forse business, sto ancora attivando i neuroni dormienti deputati alla comprensione dell’inglese yankee. E ovviamente Eric e Rebecca sono stati in Italy, a Venezia e Verona.

Ah, l’Italia: cultura, monumenti, cibo, nice people. Sto per rivelare ai miei nuovi amici come a Venezia, ma pure a Milano e Torino, nessuno attacchi bottone con un americano che mangia da solo al bar, come la bella gente nostrana sia nice solo quando ne ha voglia o abbia qualcosa da ricavarne. Mi taccio però: perché sfregiare il quadretto idilliaco in cui ci incorniciano all’estero? E poi non è nemmeno così vero, che siamo aridi e opportunisti: probabilmente le poche ore di Stati Uniti mi hanno già insufflato il virus dell’esterofilia più sconcia, quella per cui oltre le Alpi e il Mediterraneo è tutto più attraente, perfino le persone. Comunque devo ancora vederla, una coppia di trasteverini chiedere all’avventore di una trattoria se per caso sia in vacanza in Italia, già che di fianco alla carbonara campeggia la guida Rome; e appuratone lo status di turista, passarci insieme la serata.

È quanto stanno facendo Eric e Rebecca con me, sebbene io come italiano non sia poi così interessante. Questa disponibilità ad accogliere lo straniero, a chiacchierarci, quando non anche ad approfondirne la conoscenza, sarà la nota più lieta delle due settimane in New England. Il piatto del lobster roll è vuoto e pure la conversazione latita da un po’, è il momento del selfie, dello scambio dei cellulari e della solenne promessa di risentirci. Sappiamo che non succederà ma rimaniamo sorridenti, la soddisfazione per l’incontro inaspettato è di gran lunga superiore all’amarezza dell’addio, e poi chissà, magari un giorno, a Venezia…

L’oretta passata con Eric e Rebecca ha sciacquato via parte della spossatezza accumulata da un continente all’altro, è il momento di rimettersi al volante e guadagnarsi la prima notte sulle White Mountains. Fosse per le miglia residue, da Portsmouth a North Conway ci vorrebbe massimo un’ora e mezza di Nissan; il guaio è che a familiarizzare con gli indigeni si è fatto buio e guidare nel buio del New Hampshire obbliga a una velocità di crociera ben più bassa dei già umilianti 80 km/h raccomandati ogni cinquanta metri: non a caso, sulla 16 North che dall’Atlantico fugge verso l’interno sono comparsi cartelli nuovi, a metà tra la segnaletica verticale e il terrorismo. Invitano alla massima attenzione, qui attraversano la strada enormi mammiferi della famiglia dei cervidi, dalle corna possenti e acuminate, diffusi, oltre che in NordAmerica, anche in Scandinavia e Siberia. Li chiamano alci, io li chiamo urto frontale garantito.

Con gli alci ho avuto a che fare in Canada, durante la visita a zio Toni, lì migrato da Roma. Una femmina la vidi in lontananza in mezzo a una radura, un maschio adulto mi tagliò la strada al galoppo, strusciandosi su paraurti anteriore e ventricolo sinistro: evitato lo scontro, non la tachicardia da disastro imminente. Ecco, non vorrei ripetere l’esperienza, non all’inizio del viaggio quantomeno. Taro allora la Nissan sulla velocità di un risciò, nella speranza che ciò basti a evitare l’impatto col gigantesco ruminante, impatto che provocherebbe la morte dell’animale ma soprattutto dell’umano alla guida, mia quindi.

In questo stato di narcotica allerta, gli occhi due fessure incandescenti inchiodate all’asfalto, a malapena percepisco la carnevalata precoce di Halloween che mi scorre ai lati. Si rivelerà domani con la luce, nei giardini, sui tetti delle case, alle finestre, in tutta la sua taumaturgica menzogna, che a queste latitudini ha un sapore di quasi plausibilità.