Potevo essere l’Achab dell’Alto Milanese.

Alle 9.30 sono pronto, quelli della Whale Watcher Cruise di Hyannis ci hanno tenuto a scrivere che sarebbero partiti puntualissimi alle 11 e che sulla barca avrebbe fatto molto freddo: allora si esce un’ora e mezza prima con quattro strati, maglietta, maglioncino e combinazione molto Cape Cod di piumino e giacca di lana. Alle zampe doppio paio di calze e sotto ai jeans una calzamaglia da occultare con cura.

Nella mail c’era scritto anche che al porto di Barnstable non ci sono parcheggi e che i viaggiatori avrebbero avuto a disposizione un posto al prezzo irrisorio di 15 Dollari per l’intera giornata. Mi infastidisce non poco dare ragione agli indigeni, eppure quando arrivo al porto – quaranta minuti in anticipo in modo da inventarmi un parcheggio italian way – ogni anfratto che in patria avrei sfruttato con maestria pare riservato a qualcuno: staff del molo, clienti del diner, proprietari dei natanti, residenti ricchi, residenti poveri, marinai, mozzi e lavapiatti. Incredibilmente resisto alla tentazione di occupare tanto spreco di spazio, un po’ perché rispetto mozzi e lavapiatti, un po’ di più perché non dev’essere divertente rientrare dall’escursione e non trovare la Nissan, sequestrata dal carro attrezzi su segnalazione del netturbino cui ho fottuto il parcheggio. Cedo dunque al ricatto e mi presento al vecchio incaricato di incassare il sanguinoso obolo, vecchio che mi ha visto passare almeno tre volte in cerca di un buco gratis: vecchio che non trattiene un ghigno di malevola soddisfazione allorché i 15 Dollari transumano dalla mia alla sua mano.

Ma è tutto talmente inebriante e splende un sole così pulito che ricambio il ghigno e mi fermo pure al Gift Shop fronte oceano. Ho la tessera punti di ogni negozio di puttanate-ricordo del New England, però i peluches spelacchiati di orca, le felpette sintetiche, le calamite stavolta non mi incantano; mi riservo di riconsiderare, al rientro, l’acquisto di una balena in similceramica, dotata di fiocco, che colmerebbe il vuoto sul ramo centrale dell’abete natalizio, seppur creando una leggera distonia con angioletti e renne.

Whale watcher cruise

Tra parcheggio e souvenir si sta facendo tardi e alla Whale Watcher Cruise si dichiarano puntualissimi, meglio raggiungere la barca. A bordo la popolazione è eterogenea, qualche famiglia Bradford dalla Pennsylvania o dal Wisconsin, molti anziani più o meno autosufficienti, un paio di esploratori solitari barbamuniti e una manciata di stranieri per lo più del Nord Europa, a giudicare dalle gutturali che intercetto. Tutti in trepida attesa, per quanto vecchi e nordici siano in grado di trepidare. Alle 11 spaccate si salpa e avvio la ricerca della migliore postazione d’avvistamento. Ponte basso o ponte alto? Lato destro o sinistro? Seduto su una panchina o in piedi? Il resto dei viaggiatori non sembra animato dai miei dubbi, stanno bene dove stanno: godendo di una certa libertà d’improvvisare, modulo gli spostamenti in base all’ispirazione del momento.

Ora voglio l’aspra carezza del vento in faccia e mi metto in posizione eretta, appoggiato al parapetto di poppa: ieratico, messneriano. Costeggiato il Sandy Neck, il parco sulle cui dune due giorni fa ho rischiato di essere impallinato dai cacciatori, la barca prende velocità, diretta allo Stellwagen Bank National Marine Sanctuary, una porzione di oceano in cui sono solite banchettare le balene. Il vento adesso è cattivo e, malgrado i quattro strati di protezione, si fa seducente il richiamo della cabina interna, coperta e chiusa, dove alberga l’ottanta per cento degli inquilini della barca. Non essendo però ancora del tutto anziano, non avendo figli e mogli danesi da accudire, continuo eroico a rappresentare quel venti per cento di uomini con le palle che non indietreggiano davanti a una brezza di 170 km/h.

L’idea originaria di girovagare sulla barca inseguendo la luce giusta perde attrattiva via via che una crescente ibernazione mi immobilizza nella posa iniziale. È un fenomeno per nulla sgradevole, mi sento leggero, comfortably numb, tutt’uno con l’oceano. Vorrei che durasse all’infinito, che mi portassero cibo, acqua e un pappagallo dove pisciare per non dovermi più muovere da qui: gli occhi stropicciati dall’acqua, la pelle dall’aria, nessun pensiero in testa, soltanto blu. E arcobaleni negli spruzzi alzati dalla prua. L’auspicio pare avverarsi, la barca non accenna a rallentare: passa mezz’ora, passa un’ora, la Groenlandia è vicina.

Poi, all’improvviso, il motore si placa e con lui il vento: siamo al centro dello Stellwagen Bank, il regno delle balene. Ma le balene non ci sono o, se ci sono, fanno le timide. La barca staziona nell’area, aspetta, la speaker argina un principio di delusione tra gli ospiti tenendo viva l’attenzione con storielle e leggende locali. L’oceano però si increspa solamente di onde, quando vorremmo tutti gioire di uau per uno sfiato di cetaceo riemerso a respirare. Gli occhi si ostinano a brucare l’acqua e quasi mi convinco di vedere il dorso di una megattera in un’onda anomala, ma sono subdole allucinazioni da smania di evento.

La barca intanto si è mossa per stanare le balene in acque meno avare; la speaker ora fatica a contenere la frustrazione collettiva, si aggrappa all’effetto distraente di un’affannosa descrizione delle meraviglie di Cape Cod. Ecco Provincetown, ecco il Pilgrim’s Monument, ecco il Race Point, la spiaggia più a nord della penisola. Tutto bellissimo, tutto secondario: siamo qui per le balene, non lo dimenticare. Disperata, la speaker cerca di ammansirci, siamo diretti in un punto della baia dove s’è sempre vista almeno una balena.

Baia di Cape Cod

Pochi minuti dopo la barca è di nuovo ferma, fiduciosa. Peccato che le balene oggi snobbino sdegnose ogni appuntamento. Le quattro ore di escursione, che parevano eccessive, si stanno consumando in fretta, mentre la speaker farfuglia qualcosa da cui trapela chiaro l’imbarazzo di chi deve giustificare un fragoroso fallimento. Mi sembra che stia anche garantendo un rimborso o roba simile a tutti i presenti. Nel frattempo la barca ha ripreso a correre e punta dritto al porto: missione incompiuta.

Al momento di scendere, chiedo lumi sul risarcimento a un gioviale volontario sulla settantina di supporto allo staff della Whale Watcher Cruise: niente soldi, la compagnia elargirà un voucher a scadenza illimitata per una nuova caccia a Moby Dick. Saluto il volontario, che si chiama Tom e naturalmente ha origini italiane, e passo all’incasso del Buono Balena. Lo consegna direttamente la speaker: le dico che vengo from Italy e non mi è comodissimo tornare a Cape Cod; lei risponde che, se proprio non prevedo un’altra visita, posso sempre rivendere il voucher su Ebay, e non capisco se dice sul serio o mi sta prendendo per il culo. Mi allontano dalla barca prima che opti per il perculismo e le scarichi addosso l’ira funesta dei miei primi cinquant’anni. Fanculo lei, fanculo la Whale Watcher Cruise e fanculo anche la balena di similceramica del Gift Shop, sull’albero a Natale ci mettiamo il pupazzetto di neve.