Un fruscìo leggero. Vorrei girarmi, ma non riesco a scollare lo sguardo dai profili bui delle rocce che guizzano sotto di me: quest’abisso d’inchiostro aguzzo e oleoso mi sta impiastricciando gli occhi di follia.

Intorno alla fine di maggio 2017 ritoccavo il piano di conquista estiva del sud-ovest degli Stati Uniti, con l’intenzione di aggiungere chilometri e giorni all’esplorazione del Grand Canyon, la terra più fertile dove piantare il Tricolore. L’avevo sfiorato nel 1991 durante la prima campagna americana, quando l’avidità di denaro facile ci aveva trattenuto una notte in più a Vegas, allontanandoci dalle sue gole e svuotandoci le tasche. Stavolta il Canyon era da incastonare al centro del viaggio, così riprogrammai il calendario: tre dei quindici giorni previsti li avremmo spesi lì, l’ultimo al Grand Canyon Village, a un passo dalla voragine.

Williams

Due mesi più tardi, io e Bea partiamo per l’Arizona via Nevada. Dopo un breve interludio forzato tra i suoi luna park, il 5 agosto lasciamo Las Vegas diretti a Williams, la nostra rampa di lancio verso il Canyon. Per raggiungerla, la Route 93 costeggia l’area turistica di Grand Canyon West, piuttosto conosciuta grazie allo Skywalk, di cui ho letto meraviglie. Siamo in ritardo, ma la digressione è d’obbligo: svolto a est sulla 261, prendo la 25, infine la 7, che ci recapita ai piedi della “Camminata nel Cielo”.

Lungo la passerella di vetro sospesa nel vuoto, spazio e tempo si raggrumano in una vertigine tridimensionale, capace di sfilarmi ogni pensiero logico e affollare il cervello d’inquietudine e gravità. A risvegliarmi dall’incanto a ferro di cavallo sono gli schiamazzi del fotografo ufficiale dello Skywalk; reclamizza un book a pagamento, qualcosa come ottanta dollari per una dozzina di scatti. Sono tentato dalla vanità di farmi immortalare penzolante sul nulla in dodici pose; poi ripenso all’autoritaria volgarità della bigliettaia, che all’ingresso mi ha requisito cellulare e ogni attrezzo atto a rubare immagini, e non cedo al ricatto: conserverò lo spettacolo nelle cavità delle pupille.

Skywalk

In uno stato di latente schizofrenia – ammaliati dal Buco, ma disgustati dalla patologia yankee di trasformare qualsiasi emozione in merce – ricolmiamo le miglia delle strade secondarie, ci reimmettiamo sulla 93 e atterriamo in una Williams di ombre, sta spiovendo il crepuscolo.

La mattina seguente, il sole ha trasformato la città fantasma nella locandina di un western di John Ford: una strada, un distributore, il saloon, lo sceriffo e la forca. Ci saziamo di pancakes, poi copriamo euforici i cinquanta minuti che dividono il Pine Country Restaurant dal Grand Canyon, quello vero, quello enorme.

Dopo che un cappello dentro uno sgabbiozzo di tronchi ci chiede tredici dollari per accedere al Grand Canyon National Park, si materializza la prima delle stupefacenti apparizioni di quei giorni. Un giovane cervo maschio, con un già sontuoso palco, ci osserva immobile sul ciglio della strada ai margini del bosco. Mentre dalle auto in coda sporgono mani e teste ingorde di selfie, io fisso il cervo che fissa me, ipnotizzati entrambi. Mi sblocco allo strattone di Bea, punto il cellulare e scatto la sfocata testimonianza di un incontro alieno, poi la fila ci trascina via.

Grand Canyon National Park

In mezz’ora parcheggiamo e prendiamo possesso delle mountain bikes prenotate dall’Italia. Un altro grave disturbo americano consiste nell’ansia di sicurezza, spesso funzionale all’obbligo di assicurazione; al costo di dieci dollari extra l’atletico Jim ci obbliga a calzare un casco colorato e legare un lucchetto alla sella.

Dal bike rental approdiamo sul viale principale del Grand Canyon Village, un infinito balcone d’asfalto affacciato sull’infinito baratro sottostante, dove svettano imponenti agglomerati di arenaria, granito e calcare, dalle sembianze umane e di animali, di templi e di astronavi. Pedaliamo per ore, la testa orientata a destra in modo da non perdere un centimetro dei giganti variopinti e annoiati che rinfrescano i piedi nel Colorado. La notte addormentarsi non è semplice, troppo rumorosa la festa che l’eccitazione del giorno ha organizzato appena dietro gli occhi.

South Rim

Con poche ore di sonno ma carichi di aspettative, il giorno successivo ci trasferiamo da Williams al Grand Canyon Village, più precisamente al Masvik Lodge, un cottage di legno scuro che distribuisce una ventina di stanze su due piani. La nostra room 18 ospita un doppio queen bed a tema floreale, un televisore anni Novanta, un frigobar e la doccia di Psycho, quella con la tenda bianca ad anelli: l’intero, scarno armamentario di ciò che chiamano alloggio nei parchi americani. Stipiamo le valigie in camera e ritorniamo sul viale panoramico – il South Rim – decisi a sfidare il Bright Angel Trail.

L’omone del Punto Informazioni – Brad sulla targhetta – ci diffida dal calarci fino al Colorado, non riusciremmo a risalire in giornata i mille e seicento metri che separano il fondo della conca dal punto di partenza; senza un letto al Phantom Ranch – l’unica struttura all’interno dell’immenso calderone – passeremmo la notte sulle rive del fiume, in balìa del freddo e dei coyote. Privi di prenotazione al Phantom, e turbati dalle lugubri profezie di Brad, ne seguiamo il consiglio e ci diamo due ore e mezza come tempo massimo di discesa, così da tornare alla base nel primo pomeriggio. Sono le dieci di mattina e ci stiamo inoltrando a piedi nelle viscere della voragine.

Masvik Lodge

Il Bright Angel Trail è un sentiero amaranto di terra e pietrisco, mai troppo stretto da avere paura, mai abbastanza largo da stare davvero tranquilli; precipita nel cratere sotto lo sguardo sulfureo dei giganti, le cui farinose sfumature di un viola-giallo sconosciuto ci stregano a tal punto che ci lasciamo scivolare molto più giù del previsto. Riguadagniamo l’uscita solo sette ore dopo e, mentre rifiatiamo sull’orlo del South Rim, euforia e sollievo si aprono un varco nella stanchezza: il Grande Buco ci ha inghiottito e sputato senza danni.

Per gratificarci dell’impresa, ceniamo di angus, cheese cake al mirtillo e rosso della California al lussuoso Bright Angel Lodge. Mezzi ubriachi caracolliamo in camera: Bea crolla sul queen bed di sinistra appena varcata la soglia, a me lampeggia una tacca residua di autonomia e risguscio fuori, c’è da dare un ultimo morso al Grand Canyon.

Alle dieci di sera il villaggio è immerso nel buio e il balcone d’asfalto del Rim è deserto. La parata dei colossi di pietra si srotola livida, illuminata dal bagliore di una luna quasi piena tra milioni di altre luci di corredo. Nel silenzio, un fruscìo leggero mi sibila alle spalle; vorrei voltarmi, ma lo sguardo è ostaggio dei profili grigi delle rocce che ho di fronte, mentre l’abisso notturno sprofonda freddo, colloso e appuntito da trafiggermi il senno.

Bright Angel Trail

Al secondo fruscìo, giro la testa e li vedo: un’intera famiglia di cervi – padre maestoso, madre e cinque cerbiatti – a quattro metri da me. Brucano il giardino del Bright Angel Lodge, incuranti della mia presenza a tavola. Rimango a contemplare quell’epifania selvaggia per un minuto o un’ora, senz’altro pensiero che assorbirne più sostanza visiva possibile, per ricordare negli anni i cervi così come mi stanno davanti ora. Prima che trovi il coraggio di avvicinarmi, il capofamiglia comanda di rientrare nel bosco e la truppa si allontana in obbediente fila indiana.

Ne archivio l’ultima immagine, poi rigiro la testa e conficco di nuovo gli occhi nel canyon. Nella semioscurità di un miglio più sotto, mi pare di scorgere diversi puntini luminosi che si muovono irregolari come lucciole, spegnendosi e riaccendendosi. Coccolo l’idea che siano coyote, i cui occhi rifrangono la luce della luna fino al bordo del mio balcone. La suggestione dura un minuto scarso, poi cala un vento molesto che mi costringe a lasciare il Rim e rinculare incredulo verso il mio queen bed di destra.

L’indomani mattina interrogo l’amico Brad sul bizzarro fenomeno dei puntini luminosi in fondo al canyon. L’omone mi spiega divertito che le luci non sono animali, provengono dalle torce degli escursionisti notturni. Non posso permettere che lo squallido realismo di un ranger sovrappeso corrompa un simile prodigio della natura: ignoro Brad e la plausibilità della sua interpretazione e m’impongo di ricordare nei secoli dei secoli come in una notte di agosto, sotto una luna quasi piena, dal bordo del South Rim abbia visto un branco di coyote a caccia nel Grand Canyon.

Incapsulata l’immagine nella memoria, salutiamo la voragine e saliamo in macchina, ci aspettano i territori Navajo dello Utah e un’altra luna, la Monument Valley.