Questa storia è messa in scena da tre donne, io sono soltanto un testimone che cerca di tramandarla.

La prima donna si chiama Maria.
Maria suona il campanello di Villanuvola alle 14 di un piovigginoso venerdì di fine estate – mi dispiace, danno pioggia anche il sabato – ma non è qui per visitare il Lago Maggiore. Maria viene dalla Grecia, dalla Macedonia esattamente, e della Grecia porta evidenti le tracce: non altissima, capelli lunghi folti scuri, pelle cotta dal sole. E lo sguardo, lo sguardo drammaticamente schietto di Elettra, Antigone, Medea (due giorni e scoprirò quanto Maria coltivi più la fedele benevolenza di Penelope che la ferocia giustizialista delle eroine tragiche). Parla un buonissimo inglese, risorsa rara per una donna sulla sessantina ai confini dell’Europa, ma ha vissuto a Londra, Maria, e ora insegna letteratura greca a Salonicco, viaggia da sola, indossa pantaloni e blusa di lino, non le lunghe gonne nere delle coetanee di Creta: è cittadina del mondo, e curiosa del mondo – il giorno dopo, pur piovoso, su mio consiglio prenderà il treno e vedrà Stresa.

Le altre due donne si chiamano Maite e Rossana.
Le incontro domenica mattina accompagnando Maria dalla camera Arcobaleno alla biblioteca di Meina. Faccio un po’ da guida un po’ da traduttore, la mia ospite intercetta qualcosa della nostra lingua, non abbastanza però da seguire in autonomia ciò che sta per accadere: in una sala conferenze gonfia di gente, tanto che sono costretto a stare in piedi, sta iniziando l’evento per cui Maria due giorni prima ha sorvolato Egeo e Adriatico e si è accampata nella mia stanza più colorata.
Maite e Rossana siedono una accanto all’altra dietro un tavolo di vetro, di fronte il brusio di una platea impaziente. Maite è bionda, a cavallo dei cinquant’anni, ha gli occhi dolci. Ha lasciato Berlino insieme ai tre figli per espiare una colpa non sua. Rossana ha una decina d’anni in più e una sontuosa chioma rossa in cima a un vestito smeraldo. Rossana è ebrea, psicoterapeuta e Meina le scorre nel sangue.

Un sindaco visibilmente a disagio presenta gli ospiti e passa la palla a un uomo alto in jeans e giacca. È Mario Calabresi, un tempo solo figlio di Luigi, oggi giornalista e scrittore. Il suo compito è introdurre l’evento e collegare gli interventi, lo fa senza la minima concessione a quella vanità che chiunque avesse il suo curriculum sfoggerebbe. Spiegate le ragioni dell’incontro, Mario lascia la parola a Maite e la sala, già zittita, si fa attenta.

Maite è tedesca, tuttavia ha scelto di leggere un testo in italiano: seppure sporcata della fonetica dura della sua terra, la pronuncia è discreta e lei si fa capire. Non solo, Maite ci tocca il cuore. Basterebbe ciò che dice per creare partecipazione, ma è il tono accorato, liberatorio, il tono di chi aspettava questo momento da anni, a entrarci dentro.
Maria ascolta seduta accanto a me; quando intuisco che si è persa qualcosa, mi chino su di lei e traduco: voglio che assorba ogni sfumatura della redenzione di Maite, che colga appieno la vergogna di questa donna coraggiosa mentre racconta del fratello della nonna che ottant’anni fa ha ucciso e buttato nel lago sedici ebrei dopo averli prelevati dall’Hotel Meina dove erano nascosti. Voglio che Maria non perda una parola di come Maite abbia scelto, sentendolo doveroso, irrinunciabile, l’impegno personale verso quei morti innocenti anziché sgravarsi facilmente da responsabilità non sue. Ha colpe, Maite, per le atrocità del prozio? Certo che no, ma il peso di quello sterminio “familiare” le ha sprofondato l’anima nello sconforto, l’unica salvezza sta nell’onorare la memoria delle vittime di Meina, e con loro di tutti i caduti per mano del nazismo.
Maite ci spiega che insieme al marito compositore ha fondato un’associazione per mostrare ai ragazzi delle scuole tedesche cosa hanno fatto i loro avi a metà del Novecento, per stimolarne una presa di coscienza anche attraverso l’impatto transgenerazionale della musica.

Poi Maite si rivolge direttamente a Rossana, vuole ringraziarla: è stato il nonno di Rossana a nascondere i sedici ebrei nel proprio albergo, non li ha salvati ma ha rischiato la vita per farlo. Lui è l’uomo giusto che riscatta l’umanità dagli scempi degli uomini sbagliati, sbagliati come Hitler e il fratello di sua nonna. Ma vuole anche abbracciarla, chiederle scusa a nome dell’intera Germania, quella Germania che troppe volte ha chiuso gli occhi di fronte ai propri crimini, insabbiando prove e processi a carico dei nazisti anche molti anni dopo la guerra. È un gesto di pacificazione e di rinascita.
Le due donne, l’ebrea e la tedesca, si abbracciano. La sala applaude, Maria ha le lacrime agli occhi e anche i miei si inumidiscono.
Ma non c’è tempo per la commozione, Maria ora deve parlare. Già, perché la professoressa Maria Plastira da Salonicco, alloggiata da venerdì al mio B&B, ha scritto un libro sulla strage di Meina: tredici dei sedici ebrei ammazzati erano di Salonicco, sei della stessa famiglia, i Fernandez Diaz. Le sue sono parole di perdono e di speranza, Penelope e non Medea, che preferisce pronunciare in inglese: per quanto buono, alla sala arriva meno dell’italiano improvvisato di Maite. Ma non importa, Maria è soddisfatta e io con lei.

Il discorso di Maria era l’ultimo in programma, nel raggiungerla al tavolo di vetro mi fermo a stringere la mano a Calabresi; farfuglio complimenti confusi, peccato, perché lo stimo e apprezzo più di quanto il mio imbarazzo e la becera richiesta di un selfie riescano a trasmettere. La sala si svuota, ospiti e folla si spostano sul lungolago, dove gli interventi di autorità e associazioni saranno ancora partecipati ma normalizzeranno l’atmosfera, omologandola agli standard delle commemorazioni. Il fatto importante è già successo, qui, pochi minuti fa; scenderò anch’io al lago ma per ora rimango accanto al tavolo di vetro per riassaporarne l’emozione.