In una celebre scena di Fantozzi contro tutti, elencando le sconfitte del “più grande perditore di tutti i tempi”, Villaggio menziona otto campionati del mondo di calcio consecutivi, due guerre mondiali e un impero coloniale. Non ho vissuto i conflitti del Novecento ma, come il ragionier Ugo, ho perso otto Mondiali, almeno di quelli che ricordo, dall’Argentina di Videla nel 1978 – forse la miglior Italia di sempre – fino al Brasile delle favelas ripulite del 2014. Due cadute bruciano ancora: la finale di Pasadena, Baggio che svirgola il rigore; la scellerata notte magica di una Napoli fedifraga, indecisa se tifare Italia o Maradona. A differenza di Fantozzi, però, a dodici anni ho vinto il Mondiale di Spagna e a trentasei quello di Germania. Del primo ho ricordi tracotanti, legati al legame morboso di quegli anni con pallone e famiglia. Del secondo conservo un sapore più diluito, consapevole.
Nel 2006 il totalitarismo dei dodici anni aveva ceduto il posto a una passione più lucida e appartata, in linea con lo specialista di risorse umane ch’ero diventato. Guardai le partite del Mondiale tedesco da solo, a Legnano, fagocitato dal divano e da uno schermo al plasma che poteva contenere otto televisori del 1982.
L’Italia parte bene, spezzando le reni al Ghana; poi però inciampa nel soccer artigianale degli usa e si torna alle antiche angosce, per andare avanti occorre non perdere con la Repubblica Ceca. Nonostante l’elegante tasso tecnico, i boemi mancano d’inventiva: capocciata di Materazzi, sgroppata ingobbita di Inzaghi e in carrozza agli ottavi, evitato pure l’incrocio letale con Ronaldo, quello vero, il Fenomeno. Restano tre ostacoli prima della finale e, come nel 1982, due di essi si fanno Epica.
Il lignaggio calcistico dell’Australia ricorda il pedigree di un bastardino preso al canile, tuttavia Marco Materazzi ha deciso che questo sarà il suo Mondiale, nel bene e nel male: a metà gara, in balìa di uno dei suoi black-out, azzoppa un canguro in corsa e si becca la meritatissima espulsione. Dimentico del contributo contro i cechi, maledico Materazzi, le sue pause cerebrali e l’ennesimo infortunio di Alessandro “Cristallo” Nesta che gli ha liberato le praterie del Reich; non so ancora quanto lo ringrazierò per le altre capocciate, date e prese, con la Francia.
I gladiatori resistono in dieci per l’intero secondo tempo, all’ultimo fiato un terzino dalla faccia spaesata s’invola sulla fascia sinistra, si trucca da Garrincha, salta due aussie e trova le ginocchia del portiere: il soldato semplice Fabio Grosso si è fatto Garibaldi. Rigore generoso ma rigore. Totti indossa gli occhi di tigre di Velasco e non tradisce.
Ai quarti di finale, Zambrotta e Toni infrangono il sogno di Shevchenko, catapultando l’Italia oltre l’Ucraina, verso il millesimo conflitto con la Germania, stavolta padrona di casa e riunificata sotto il “Kaiser” Klinsmann. Ostaggio di un’appiccicosa scaramanzia che vieta di modificare logistica e rituali vincenti, rieleggo il divano legnanese a teatro della sferomachia, da gustarsi in rinnovata e benaugurante solitudine.
Fin dal primo attacco la pressione tedesca è soffocante, l’obiettivo dichiarato è sfiancarci sui lati per aggirare la Linea Maginot eretta dal calabrese Gattuso e dal napoletano Cannavaro. I barbari del Reno non peccano di allegra presunzione come i brasiliani di Spagna, difficili i cali di tensione o le distrazioni; quindi, stare compatti per centoventi minuti e arginare le brecce improvvise dei loro blitzkrieg.
Dopo due tempi regolamentari d’ansia ma di pericoli effimeri, nei supplementari il generale Lippi sguarnisce la fanteria règia e lancia i partigiani d’assalto. Confidando in una presumibile stanchezza degli avversari, con perspicacia versiliana schiera, tutti insieme, Iaquinta, Totti, Gilardino e Del Piero, quattro punte che neanche Zagallo nel 1970, quando in campo andavano Pelè, Tostão e Rivelino.
Ora Pirlo danza al limite dell’area crucca col pallone tra i piedi, sta pensando, sta vedendo ciò che gli altri non vedono. D’istinto, con un tocco verticale, secco, affilato, deflora l’angusto pertugio tra lui e Grosso, tagliando fuori un plotone di Vandali attoniti. Fabio Grosso non dovrebbe essere lì, come Bergomi non avrebbe dovuto trovarsi nell’area tedesca al gol di Tardelli del Bernabeu, ma è l’anomalia del Sud, l’improvvisazione che nessun Mein Kampf ti insegna.
Grosso carica il mancino, una sola idea in testa, inquadrare la porta, poi vediamo. Impatta con la potenza di Riva e la precisione di Corso, altri Vandali impotenti osservano la palla arcuarsi a mezz’altezza, allargarsi, rientrare e infilarsi maligna tra palo e traversa, là dove i tentacoli di Lehmann non possono arrivare. Fabio corre, alla felicità sfrenata di Tardelli si somma l’incredulità del gregario, il terzino del Palermo scuote la testa, ma è tutto vero: ha appena segnato il gol dell’1-0 in una semifinale mondiale, e mancano due minuti alla fine.
Ora un altro Fabio si eleva a quattro metri da terra nel cuore della propria area, di testa schiaffeggia il pallone che atterra un miglio più avanti, lo rincorre, lo scippa a un tedesco terrorizzato da tanta furia e lo deposita sui piedi sicuri di Totti. Sulla sinistra sta sbuffando come una locomotiva a vapore un ragazzo di San Vendemiano, partito dall’area piccola alla zuccata imperiale di Cannavaro. Totti caracolla fino a centrocampo, poi fende trenta metri di prato in diagonale, recapitando la palla a Gilardino: siamo a pochi passi dalle trincee nemiche e sulla sinistra l’incursore veneto continua a stantuffare sui binari. Gilardino ha un solo uomo tra sé e Lehmann, tarda ad affondare, sta aspettando la locomotiva che gli fischia dietro. Rientra verso la lunetta e, al pari di Scirea in Spagna, di mezzo tacco apparecchia la palla per il destro di Alessandro Del Piero, l’ostinato ragazzo a vapore di San Vendemiano. Potrebbe segnare in mille modi, ma Alex è abituato a stupire e, mentre Lehmann gli va incontro, piazza una parabola temeraria nell’angolo alto a sinistra: 2-0, game over a Dortmund.
Del Piero non è un sottoposto come Grosso, non si sorprende della propria giocata: attende questo momento dal 1998, allorché al Mondiale francese, riannodati i legamenti del ginocchio, cedette il ruolo di primadonna a un Baggio redivivo. Attende questo momento dal 2000, dalla finale dell’Europeo fiammingo, dove per due volte ciabattò fuori il gol del 2-0 e della coppa. Attende questo momento dal Mondiale asiatico del 2002, che avrebbe dovuto consacrarlo e si trasformò nella ribalta di un Pupone pigliatutto.
E allora corre Del Piero e urla e impreca, prende a calci le balaustre sotto le lacrime di Sonia, la compagna schiva che lo applaude dalla tribuna, lei sì stupefatta: il suo uomo ha accettato la panchina, poi si è fatto cento metri di campo mentre Cannavaro, Totti e Gilardino irridevano gli avversari, per presentarsi puntuale all’appuntamento con la Storia, la sua e della patria: se non è commovente cocciutaggine questa!
Siamo in finale, ma quella è un’altra storia.
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