Negli anni del primo rilascio – la sua versione 1.0 – pensava spesso agli altri. Gli altri intesi come collettività di esseri umani indistinti tra loro: gli altri. Aderiva con fervore a ogni iniziativa che si proponesse di salvare vite umane o rivendicare diritti per le minoranze o ridurre il numero di poveri nel mondo, dedicando porzioni importanti del suo tempo a riunioni, aggiornamenti, mobilitazioni. Collaborava con Amnesty International per abrogare ovunque la pena di morte. Partecipava a innumerevoli raccolte di firme affinché migliorassero le condizioni dei detenuti. Fraternizzava con i Radicali e lo sciamano abruzzese, rammaricato di non aver combattuto le loro lungimiranti battaglie di libertà degli anni Settanta. All’epoca era giovane, motivato e consapevole: pensava e affermava con passione che non poteva esserci felicità di uno senza la felicità di tutti.

Poi un virus contagiò il sistema e lo dovettero spegnere e resettare.

Nella versione 2.0 molto dello slancio ecumenico andò perso: cominciò a restringere il campo del suo contributo e a selezionare con attenzione le cause da difendere. Ancora giovane, ma meno motivato e più consapevole, si limitava alle donazioni per la ricerca sul cancro e a considerare l’ipotesi di spedire dieci euro per l’istruzione di un bambino maliano. Iniziava a farsi strada il pensiero di poter essere felice anche se un altro essere umano non lo era.

Poi bruciò la scheda madre e lo formattarono una seconda volta.

Scemò quasi del tutto l’impegno civile e nessuna causa riuscì a non sembrargli persa in partenza. Si concentrava ancora su qualche forma di bene rivolta all’umanità, ma era uno sforzo, non un piacere, i colpi di coda di un imperativo morale agonizzante. Il Bene Universale divenne beneficenza posticcia, da praticare solo in primavera, allorché destinava il cinque per mille delle tasse all’ente meno fastidioso. Dal divano provava ammirazione sincera per la folla che rinunciava al mare per manifestare contro la negazione della libertà di stampa in Turchia. E applaudiva i militanti indiani pronti al martirio pur di smantellare la legge che puniva l’omosessualità col carcere. Ma girava lo sguardo quando per strada un ragazzo smagrito e malvestito gli chiedeva una firma, solo una firma, a sostegno di una comunità di recupero dalla droga. Nel suo cuore indurito fece breccia la certezza che avrebbe potuto essere felice anche in un mondo infelice.

Poi il processore prese acqua e non poterono che riattivarlo una terza volta.

Dell’ardore social-progressista della sua giovinezza restò poco o nulla. Dimenticava di compilare la casella del cinque per mille e cambiava canale quando la televisione mostrava fiumi di italiani scuri marciare compatti in difesa dello ius soli. Conservava però il gusto di leggere le arringhe di compassati editorialisti, la cui saggezza tardiva confliggeva col passato torbido e violento, ma produceva pagine di bellissima prosa giornalistica. E si raccontava di appartenere ancora alla metà buona della lavagna.

Il progressivo disinteresse verso persone e popoli privati della dignità – verso gli ultimi – scavò una voragine nella percezione di sé. Stentava a riconnettersi con le ragioni del suo ruolo nel mondo, dello stesso stare al mondo. Appena prima che gli ultimi strascichi di civismo abbrutissero in cinismo egoriferito, avvenne qualcosa di imprevisto.

A pochi passi dalla casa del lago, avevano ristrutturato il vecchio circolo ricreativo del paese, facendone un raffinato ristorante. Una ventosa giornata di luglio, decise di testarlo: non fu la delicatezza del cibo la sorpresa, e neanche gli arredi country o la veranda fiorita. La luminosa novità erano i camerieri: tutti ragazzi e ragazze con la Sindrome di Down. Tutti di un candore alieno, portatori sanissimi di entusiasmo e verità. Innamoratosi di tanta innocenza, prese a snobbare gli altri locali di Meina per sedersi sempre più spesso nel dehors profumato del Ristoro Primavera. E da qualche remota cavità etica rispuntò il proposito mai realizzato di frequentare un ragazzo down.

In autunno s’iscrive a un’associazione di volontari e gli assegnano la responsabilità di seguire Marcello. Lo conosce a casa sua, scortato dai genitori. La timidezza silenziosa, venata di una legittima diffidenza, mette a dura prova la sua collaudata presunzione di scardinare qualsiasi meccanismo di autodifesa altrui con una battuta grossolana o una pacca sulla spalla. La ritrosia di Marcello smonta altresì l’idea, alimentata dall’assiduità coi camerieri del Primavera, che l’interazione con i ragazzi come lui sia sempre facile e immediata.

In associazione lo hanno avvisato di non aspettarsi risultati pirotecnici al primo incontro: l’esperienza insegna che è necessario sviluppare una relazione nel tempo e che la sola utilità del momento delle presentazioni sta nell’intercettare un eventuale, istintivo rifiuto da parte del ragazzo. Ciò che in associazione non possono sapere è che stanno chiedendo tanta costanza a un dilapidatore seriale di rapporti personali. E che tale abilità non tarderà a dare spettacolo.

Pochi giorni dopo averlo conosciuto, è obbligato a cancellare il secondo incontro con Marcello, non ricorda se a causa di un’imperdibile partita di Champions League o di un film iraniano al cineforum. Quando, insensibili di fronte alle sue circensi giustificazioni, i volontari anziani gli dicono che dovrebbe garantire continuità al suo impegno; che l’incontro settimanale con un ragazzo down non può slittare al primo imprevisto; che loro investono tutto di sé in quel rapporto nascente e la struttura emotiva è troppo fragile per gestire l’abbandono: in quel momento, in quella stanza spoglia dell’associazione, capisce che il suo altruismo non sarà mai così gratuito e impetuoso da fargli rinunciare a una punizione di Pirlo o una rassegna su Fahradi.

Non ebbe il coraggio di salutare Marcello. Si nascose dietro la barba e si rinchiuse nel carapace, in attesa del successivo resettaggio. Quello che avrebbe generato un Lui 5.0: un fiacco cinquantenne, ancora convinto della connessione tra la felicità altrui e la propria, ma nel senso ormai capovolto e perverso per cui meno felici fossero stati gli altri, più felice sarebbe stato lui.