Dieci marzo duemilaventi. Ci siamo riusciti, abbiamo costretto l’umile avvocato di Foggia a farsi re e condannarci agli arresti domiciliari.

Sette ore che mi hanno chiuso in casa e ho già bisogno di aria non viziata. L’editto di Giuseppe I mi consente di correre al parco. Però. Però il parco è a 2 km e sempre l’editto mi vieta di passeggiare per strada, a meno che non abbia un cane, che non ho. La macchina è interdetta e la bici pure: come lo raggiungo il parco? In mongolfiera? Penetrando le catacombe di Legnano? Mi faccio prestare il bastardino ragliante dei vicini? E se sono infetti? Niente corsa, m’ingozzo di pistacchi davanti alla tivvù.

Il virus è protagonista su tutti i canali, tanto che non mi sorprenderei se al posto di Giletti comparisse lui: «Buonasera, sono Covid, stasera conduco io e l’amico Massimo introdurrà gli ospiti: avremo Sars, Mers ed Ebola, che ci parlerà della sua ultima tournée africana». Il diritto di cronaca è sacro, per carità, lo dice la Costituzione, e Dio sa quanto abbiamo bisogno di informazioni. Ma sono recluso in settanta metri quadri, spogliato di ogni svago per colpa degli stakanovisti della movida, mica posso leggere e scrivere tutto il giorno. Datemi tregua, datemi un film che non sia l’ennesima replica di Pretty Woman, un talk-show che indaghi sugli abissi psichici del mio Corona preferito, Fabrizio.

Perché la rai non lancia un canale di servizio da affiancare a Rai Scuola, Rai Storia, Rai Come allacciarsi le scarpe? Ho il nome: Rai Virus, Vita e opere del Covid-19, canale 38.126 del digitale terrestre, ventiquattr’ore su ventiquattro, anzi H24 come dicono quelli trendy. Una cosa all’americana, Vespa siliconato alla scrivania che fa storytelling sui casi del giorno: il nuovo contagio sul Cervino, il Paziente Uno tornato a giocare a golf, i segreti di Burioni per un ciuffo sempre in ordine. Sotto, le breaking news che scorrono garrule, tutte numeri e terrore. Vuoi tenerti aggiornato sulla pandemia? Vai su Rai Virus, dove epidemiologi, economisti, politici sono alle prese con qualcosa più grande di loro, ma ti regaleranno ognuno il proprio contributo di scemenze.

E finalmente, nel palinsesto principale, la Venier tornerebbe a sballonzolare le mammelle, la Berlinguer ad amoreggiare col Corona etilico, Mauro. E Fazio riprenderebbe a blandire i suoi ospiti. Riavrei l’adorato, superfluo infotainment di Stato, senza le profezie degli scienziati stregoni, ché tanto di virologi onniscienti ce ne sono a frotte sul web: tuttologi egocentrici che, da quando un furbo ragazzotto ebreo di Boston li ha piazzati sul pulpito virtuale, arringano le folle su ogni piega dello scibile umano, indottrinati da blog meno attendibili di un’Olgettina al processo Ruby ter.

 

Una settimana ai domiciliari

Stamattina ho provato a buttare giù quattro accordi di chitarra, già che i colleghi cantastorie sfornano capolavori in serie sul Coronavirus, convinti di essere baciati dal talento di Achille Lauro: se non li imito, finisce che scompaio dai radar del miusic bisnes.

La fortuna di lavorare in ciabatte anche in epoca ante Covid – sempre che scribacchiare canzoni o racconti si possa spacciare per lavoro – mi sta aiutando non poco a sopportare la prigionia, ora che l’affascinante microrganismo ha occupato il salotto col kalashnikov in mano. Un rito soltanto è compromesso, la visita quotidiana al castello di prelibatezze chiamato LIDL. Nel parcheggio davanti al mio balcone il termitaio di tossici alimentari brulica come un martedì qualsiasi: buste, carrelli, portabagagli spalancati, tir-anaconda che stipano il discount di ogni ben di Dio. All’ingresso si è formata la fila e pensano tutti che la salvezza stia in quei quaranta centimetri di distanza. La storia siamo noi, cantava qualcuno.

La mia spesa l’ho fatta ieri, ho guidato un paio di carrelli e accumulato scorte per i prossimi cinque anni. Nessuna psicosi – ci mancherebbe, sono un illuminista – piuttosto una limitazione del rischio, l’accortezza di attraversare i corridoi saturi di esseri maligni una, massimo due volte a settimana anziché le consuete sette. Sarei più temerario se le allegre famigliole vagabondassero lungo le corsie del LIDL munite di mascherine, o di garze, calze di nylon trenta denari, carta da forno tenuta insieme da un elastico. Se, insomma, erigessero una qualunque barriera tra la loro respirazione guasta e la mia; o stessero in silenzio. Utopie: il tasso di mortalità cresce di mezzo punto al minuto eppure bocche belle in vista, ettolitri di saliva velenosa sparsi tra gli scaffali e occhi che mi scrutano. Sì, perché io la mascherina ce l’ho, da tre settimane, da quando Covid ha sequestrato quei campagnoli promiscui dei lodigiani. Ne ho trovate una ventina in un cassetto del bagno, credo risalgano al periodo in cui mio padre voleva fare il chirurgo. Sono di cartavelina, la consistenza di un’ostia, ma servono, lo ha detto anche la Gruber. Di certo tengono a distanza i villeggianti del LIDL, i quali, avvistato l’untore mascherato, girano alla larga, come si fa coi barboni.

 

Due settimane ai domiciliari

Sto ingrassando. Incurante del metabolismo da bradipo incrociato a una testuggine che dalla nascita dilata i tempi della mia combustione alimentare, pur conscio che lo spostamento più elettrizzante consentito mi porta dal cesso al divano o, se vinco la lotteria con Cristiana, fino ai bidoni della differenziata in cortile, per fronteggiare l’insofferenza alla cattività ho raddoppiato le dosi di cibo e lasciato che i trigliceridi piantassero le tende nel mio sangue.

La messe di pubblicità inneggianti a carboidrati e amidi vari non aiuta: è un bombardamento degno della Luftwaffe, un cavalcare la quarantena rubando gli slogan ai social: #non ci dobbiamo preoccupare, #andrà tutto bene, #iorestoacasa! Immagini strappacore, malati, volontari, commessi, famiglie carcerate, pure i rider vengono sfruttati per smerciare biscotti; ma anche energia elettrica, materassi, perfino assicurazioni. Una celebre marca di pasta si supera grazie a una voce narrante che ringrazia l’impegno degli anziani come nonni, sciamani, padri della patria, mentre una telecamera scaltra ne inquadra i visi saggi e buoni: ti aspetti che in coda arrivi il logo del Governo, del Ministero della famiglia o il faccione fasullo della D’Urso. E no, lo spot si chiude con un paio di secondi eterni sul brand del pastificio.

A me questo sciacallaggio delle emozioni per vendere le fettuccine ha sempre schifato, fin dai tempi delle candele sulle scalinate di una bibita appiccicosa, color caramello, tanto zuccherata da evolvere in Light e Zero. Mi sgomenta che lo spettatore medio si beva l’associazione messaggio etico-prodotto commerciale e, finita l’ipnosi, corra a comprare le fettuccine perché ha un nonno partigiano di cui celebrare la sopravvivenza. Io quella pasta la boicotterei proprio per l’oscenità dell’accostamento, ma io sono un ignobile moralista, mica un avveduto consumatore. Comunque sto ingrassando e considerando l’ipotesi di farmi una dozzina di volte al giorno le scale del condominio: se incappo in un inquilino, rinculo e mi getto nel vuoto della rampa.

 

Pasqua ai domiciliari

Non temere di perderli, e senza salutarli, è una delle misere consolazioni nel non avere genitori vivi al tempo del Covid. Dall’editto del 9 marzo esco esclusivamente per fare la spesa, proteggo soprattutto i vecchi, quelli che non sfoggiano i parametri scintillanti di un cinquantenne atletico, esente da pillole e magari positivo asintomatico. Non ho più i genitori, ma non per questo me ne frego di chi sta morendo: io resto a casa, perché sono cuore e cervello a impormelo prima ancora di un decreto. E gli abbracci di facciata, le cene-vetrina, gli strusci in piazza – la vita normale – li assorbo al chiuso dai dvd di Sordi e Sorrentino, anche se fa strano, molto strano.

A Bergamo sono tante le bare che le portano via i blindati dell’esercito, eppure sento incitare alla disobbedienza. Guardo video virali di ragazzine dalle labbra di gomma che accetterebbero di disertare Spritz e rave party unicamente a fronte di accertate morti per Covid tra venti-trentenni. Leggo le proteste stupefatte di podisti che trovano gli abituali luoghi di corsa infestati da nuovi podisti, colpevoli di essere lì, insieme a loro: ma come, pensavo di essere da solo! Vedo, con i miei occhi, il LIDL preso d’assalto dalle 8 di mattina e, se osservassi meglio, riconoscerei le stesse persone ogni giorno: ma come, pensavo di essere da solo! Sento, con le mie orecchie, i vicini accordarsi per una colomba in compagnia. So di profumerie che aggirano il divieto di apertura vendendo disinfettanti, e di amiche lombarde in visita al padre novantenne di stanza in Liguria, misantropo e sanissimo.

L’intera nazione si sta lodando in coro per l’Alto Senso di Responsabilità: tutti a dire, ma no, gli imbecilli sono pochi, la stragrande maggioranza rispetta le indicazioni. Certo, come quando il virus mieteva centinaia di vittime e gli italiani bravaggente si ammassavano alle seggiovie o gremivano i treni per svernare la quarantena al Sud. Non è che ci stiamo raccontando di essere diligenti per non sputarci in faccia allo specchio? Davvero vogliamo credere che le ripetute infrazioni siano sporadici e comprensibili appannamenti della lucidità dopo settimane di reclusione? O candide smanie ambientaliste di vita en plein air? Nessuno scorge all’orizzonte la marea montante di deliranti, minacciosi pruriti anarcoidi? Di nostalgiche poetiche in stile “potere al popolo” e “lotta allo Stato” che tante coltellate hanno inferto a questo paese? Troppe domande per un uomo solo, meglio tagliare l’agnello e recitare il mantra: andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà tutto bene, andrà…

 

Festa del lavoro ai domiciliari

L’iniziale piacere di avere Cristiana lavorante a casa sta scolorendo in una pericolosa intolleranza reciproca alla convivenza forzata. Abbiamo convenuto di sigillare gli oggetti appuntiti in una cassapanca protetta da due lucchetti, di cui io conosco una combinazione e lei l’altra. Per evitare possibili scontri a mani nude, si è pensato di ridurre le occasioni d’incrocio spartendoci i locali: tinello e cucina lei, studio e soggiorno io, linea di trincea la camera nuziale – sia benedetta la Provvidenza che vent’anni fa ci ha fatto scegliere un letto-piazza d’armi largo un paio di iarde. Ulteriore accorgimento, ci avvertiamo via whatsapp se uno dei due deve attraversare il territorio nemico per funzioni gastriche o deambulatorie, in modo che l’occupante abbandoni in tempo il presidio prima dello scontro bellico. Quando Cristiana mi chiama per il rancio, scavalco il filo spinato, ripasso le formule più efficaci di training autogeno e pesco dalla memoria i complimenti preferiti dall’amore della mia vita.

Distanziato dalla moglie e libero da impegni mondani, mi regalo lussi che in periodo precoronico mi permettevo solo se costretto a letto da un cugino meno prepotente di Covid: rimango in pigiama ben oltre mezzogiorno, lavo i denti a sere alterne, docce con molta parsimonia – ho letto da qualche parte che il sapone inibisce la produzione di globuli bianchi con ricaduta sulle difese immunitarie. Non mi rado da tre settimane; peccato che la quarantena mi impedisca di srotolare il tappetino di barba negli ambienti che contano, dove la coltre lanuginosa alla Padre Pio è assurta ad accessorio indispensabile, al pari degli anelli al pollice. Le mani invece le striglio una decina di volte all’ora, manco fossi un chirurgo o un minatore.

Questo lassismo igienico non è solamente una comodità senza prezzo, torna anche utile una volta obbligato ai contatti sociali dall’approvvigionamento di vivande: se prima era la mascherina ad allontanare i miei simili, ora che ce l’hanno tutti, lo fa il mio afrore.

 

Fine dei domiciliari

Com’è bella la città

Com’è grande la città

Com’è viva la città

Com’è allegra la città

Quattro maggio duemilaventi. Mentre guado le strade di Legnano, mi stupisce una volta di più la lungimiranza di Gaber: c’è un clima di festa venuta male, un Halloween triste di gente che si evita come la peste ma che vuole immaginarsi comunità perché la solitudine è stata troppa. Un simulacro di libertà, sufficiente, per ora.

Da oggi si può e sono uscito anch’io, che solo non mi sento mai abbastanza: ho interrotto il Bartezzaghi, riesumato la Bottecchia di mio padre e, tra cigolii e scampanellate, ho conquistato il centro nella prima gita fuori porta degli ultimi due mesi, nel senso che mi sono spinto oltre la porta di casa, dove peraltro non mi mancava nulla. Fluttuo tra marosi di aspiranti rapper che misurano le distanze di sicurezza con la metrica dei Puffi; circumnavigo falangi di pensionati scatarranti in tripla fila sulla ciclabile; doppio famigliole in infradito e poppanti senza guinzaglio, attratti dalla mia bici d’epoca come insetti dalla luce. E mi maledico per l’improvvido abbandono del tetto coniugale.

A dispetto del nuovo editto regio, la cui magnanimità ha sdoganato attività motoria e visite ai parenti, le gelaterie sono accerchiate, parchi e parchetti intasati, i tavolini dei caffè lontani una ventina di centimetri. Chiese e librerie sono tutte aperte e tutte vuote – la normalità è vicina – tuttavia i cartelloni di spettacoli vecchi di mesi e i carri funebri sul sagrato di San Domenico mi ricordano che serve tempo.

Dopo aver profanato lo spazio sacro della Mondadori per assicurarmi volumi imperdibili – tra cui il bestseller Come sottovalutare un’epidemia, scritto a otto mani da Capua, Zingaretti, Fontana e Speranza – mi reimmergo nella giungla depressa, silenziosa e meccanica del passeggio, fino a costeggiare la Asperti, la pasticceria di Legnano. Vorrei un cannolo, vorrei godermi l’amabile pettegolezzo delle signore bene e carpirne la frustrazione di quando erano segregate in trenta ettari di attico, provando per loro la stessa solidarietà che dedico a infermieri e intubati. Ma sono serio e ligio, e siccome non ho affetti stabili da andare a trovare, mi rassegno a pedalare all’infinito, in attesa che la stanchezza di Forrest Gump mi ridepositi sul divano. Lì mi appisolerò e sognerò una rinnovata, cruenta quarantena per le nobildonne padane.

 

Tre giugno duemilaventi. Ci siamo riusciti, abbiamo convinto Giuseppe I a reindossare i panni dell’umile avvocato di Foggia e abolire il coprifuoco: siamo liberi!

Ora accetterò di uscire vestito da Zorro per i prossimi quindici anni; accetterò di stare in coda per il pane come i miei nonni, di non abbracciare altra donna all’infuori di Cristiana; accetterò di rimandare il viaggio in Alaska, di sospettare di tutto e di tutti: non foss’altro per rispetto ai trentacinquemila caduti per la Liberazione.

E se dentro ai recinti di plexiglass delle spiagge d’Abruzzo mi dovessi sentire come un cavallo scemo confinato dal paraocchi, potrò sempre tornare sul mio balcone legnanese fronte LIDL, che ogni tanto sale pure una gradevole brezza.