Dodici, non più di tredici anni avranno questi quattro monelli saliti ora a Bonola e pronti alle crociate. L’armatura è la stessa per tutti: calzoni dal cavallo alle ginocchia, maglietta informe sottratta ogni giorno con orgoglio ai detersivi delle madri, l’ondina sulle scarpe tre numeri più grandi del piede. E ognuno brandisce il proprio skateboard d’ordinanza, a mo’ di scudo.

A dodici anni lo scheit ce l’avevo anch’io: giallastro e smangiato ai bordi. Ci zompavo sopra pachidermico, rullavo per tre metri, poi derapavo di lato capottandolo, coi protobulli dell’epoca a spernacchiarmi di risate. La coordinazione fisica non mi è mai mancata – al contrario, spesso, di quella mentale – eppure questa disciplina pseudosportiva mi ha sempre rigettato, chissà perché…

I monelli hanno taglie diverse, come si conviene all’età. Quello più grosso è già uomo, definito nei muscoli principali, peloso, voce cannoneggiante che scuote il vagone. Interloquisce con un marmocchio di un metro e mezzo, forse meno; questo parla pigolando come un pulcino, ma governa la scena da leader nato: è lui a decidere quando si deve scendere e dove si deve andare e perché.

Il Grosso cerca di rubargli la parola, in parte ne vuole minare l’autorità, in parte stupirlo per guadagnarne il rispetto. Se saprà contenere il fastidio della subalternità, se eviterà le sirene del narcisismo antagonista, evolverà in un adulto equilibrato, oltre che peloso.

Il Nanetto rischia di più: di perdere consapevolezza a fare sempre il capo, di leggere il proprio valore nelle lusinghe e nell’asservimento degli altri; di prendere decisioni sbagliate quando non avrà la forza o la lucidità per quelle giuste. Per ora pare tenere ben saldo il timone, gratificato dal proprio carisma e dalla docilità della ciurma, ma presto il peso della croce ne zavorrerà l’euforia e, se non lascerà la barra ad altri, sarà condannato alla prepotenza.

Nel gioco di ruolo recitato dal Grosso e dal Nanetto dominante, gli altri due monelli ascoltano, ridacchiano, compatti e intercambiabili. Sono biondi di capelli e la voce si è impantanata per entrambi nella palude tra infanzia e adolescenza: un gracchiare alternato di frequenze profonde e ultrasuoni alieni, che nascondono al mondo provando a parlare il meno possibile.

Forse fallivo con lo skateboard perché già allora fuggivo dalle esibizioni ostentate, dalle pose del figo-a-tutti-i-costi; forse perché la velocità su ruote mi ha sempre spaventato, o forse perché non mi divertiva ed ero costretto a salirci pena l’espulsione dal branco, sorte ben peggiore dello spernacchiamento. Fatto sta che sulla tavola non ero a mio agio, la vivevo come un’inutile appendice instabile e infida.

Alla prossima fermata scenderanno perché lo ha detto il capo; forti dello scudo cavalleresco, passeranno il pomeriggio a catapultarsi dagli scivoli di cemento, sbeffeggiando la morte a ogni piroetta. Sto pensando di stravolgere i miei programmi e seguirli, per ammirarne perizia tecnica e sfrontata precarietà; si tratta solo di capire se sarò capace di riemergere indenne dall’inesorabile voragine d’invidia che la loro incoscienza scaverà nei miei occhi.