Il 14 luglio 1789 migliaia di parigini affamati e inferociti prima presero d’assedio, poi s’impadronirono della prigione cittadina, la Bastiglia. Conquista di poca sostanza – la fortezza era pressoché incustodita – ma che assurse a simbolo della ribellione popolare e della Rivoluzione Francese tutta.

Duecentotrenta anni dopo, il 14 luglio 2019, un’altra ribellione, di portata ben maggiore, spodestò un re svizzero dal trono d’Inghilterra: un guerrigliero serbo, forte dei danni di due attentati precedenti, mirò dritto alla sagoma del sovrano, ferendolo a morte.

Quella domenica la ricordo bene.

Sono al mare, da solo, in Abruzzo, il mio posto delle fragole estivo da quattro decenni. Ho tutto tranne la connessione internet, zoppicante e umorale: se rimango sul balcone rischio di vedere uno scambio sì e tre no. Mi rifugio allora dall’unico pusher di wi-fi nei paraggi, il lido “Al sorriso”, terrazzone fronte Adriatico che riscatta la modesta architettura grazie ai migliori spaghetti alle vongole della costa. Con me ho il portatile ma di prese esterne neanche l’ombra e la batteria del PC dura quanto un game di Kyrgios al servizio. Alle 14.50 sintonizzo il cellulare su Sky e mi rassegno a guardare l’ultimo atto dei Championships su uno schermo di dodici centimetri per sei.

Sconfortato, cerco almeno di creare un clima congruo all’evento, sennonché ai quattro tavolini di plastica bivaccano soltanto russi ubriachi di prosecco e Franco, il barista, saprà cucinare le vongole, ma è convinto che Federer sia una birra tedesca: non è così che si dovrebbe guardare una finale di Roger a Wimbledon!

Urge tamponare la depressione, prendo a chattare con mio fratello, lui sì spaparanzato davanti a un plasma di 45 pollici, 600 km più a nord. Pare incredibile eppure bastano pochi minuti di match per trasformare il lido “Al sorriso” nel Centre Court dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Dagli spalti virtuali vedo Djokovic rapinare il primo set al tie break, poi Federer pareggiare i conti con un imperiale 6-1.

Quando Nole scippa un altro tie break e sale due set a uno, mi scollo dalla sedia, due ore a fissare il telefonino mi hanno dilatato le pupille come a un cocainomane – e pure lo stomaco reclama attenzione. Mendico un Cucciolone a Franco, la cui reiterata ignoranza su chi sia Roger – c’è davvero qualcuno sul pianeta Terra che non conosce Federer! – rianima la mia frustrazione iniziale. Ma non ho tempo per indottrinare baristi abruzzesi sulla bellezza sprigionata dal braccio di un tennista svizzero, mi reinscatolo tra muro e tavolino e mi preparo al peggio, giacché vincere due set di fila contro lo squalo serbo che ha sentito il sangue non è un’impresa, è un miracolo.

Roger invece, non si sa come – in realtà lo so, gioca come solo lui può fare – azzanna il quarto set. Il mio “Andiamo!” urlato a squarciagola diffonde la notizia per tutta Silvi Marina svegliando un paio di russi. Mio fratello è incredulo, gli scrivo di avere fede, l’uomo nato con la racchetta in mano vuole battere il record di Rosewall, il più vecchio a intascare uno slam, nel ’72, in Australia, a trentasette anni e sessantadue giorni: Roger ne compie trentotto tra meno di un mese. Quel primato lo vogliono anche i 15.000 del Centrale, hanno capito di essere al cospetto della Storia quindi applaudono sì – sono inglesi – i recuperi irreali del dissidente balcanico, ma inneggiano impazziti alle magie del Maestro.

Siamo a quattro ore e ventisei minuti di strazio e sudore, come stessi giocando io. E ora ne manca solo una, di magia. Lo sa anche l’elegante signora bionda in tribuna, camicia bianca e drink in mano, che si alza in piedi e sollevando l’indice grida “One more”, ignara di quanto iconica diventerà la sua immagine. Lo sa anche Roger: ha appena strappato la battuta a Djokovic issandosi sull’8 a 7 – niente tie break sul 6 pari, siamo al quinto e siamo a Wimbledon – e forse ci pensa troppo.

Si piazza a destra per giocarsi il primo di due matchpoint.

Ora tira un altro ace, così facciamo tre di fila col paio che l’ha portato sul 40-15: game set and match, braccia aperte, pianti, coppa, discorso e sorrisoni dal balcone della Club House.

La prima non entra.

Sulla seconda Djokovic risponde a un palmo dalla riga, Roger s’imballa e manda largo il dritto.

Vabbè, c’è un secondo matchpoint, anche se…

Stavolta la prima entra.

Nole si arrangia con un back che rimbalza a metà campo.

Eccola, la palla da chiudere, uguale a un milione di palle chiuse da Roger.

Inside out in contropiede.

Oppure inside in che scivola via filante.

Dropshot appena oltre la rete o attacco profondo e volée terminale.

Niente di tutto ciò.

Il braccio rattrappito di Federer partorisce un drittucolo asmatico e corto, sul quale Nole arriva facile pennellando un passante incrociato quasi banale per lui.

Non riesco a soffocare un “porca puttana”, i russi ridono, e a mio fratello scrivo “Non è vero!”

Mi risponde che Roger doveva forzare la seconda sul primo matchpoint: la sbagliava? Ne aveva un altro!

Ha ragione lui e ha ragione Djokovic quando, mezz’ora più tardi, al tie break del 12 a 12 – sì, dodici a dodici, perché quest’anno a Church Road funziona così – Federer stecca e lui si mangia l’erba, come nel 2014, come nel 2015.

Il re è nudo, io svuotato: cinque ore appiccicato a un cellulare, nell’indifferenza abruzzese, con la sola compagnia digitale di mio fratello e un Cucciolone in corpo, tutto per vedere il ghigno compiaciuto di Djoker. E ora anche sotto l’acqua, già che gli dei hanno deciso di piangere con me, scatenando un temporale scespiriano alla vittoria del serbo.

Quella domenica la ricordo bene.

Stavolta non era finita in gloria, non si era ripetuto il miracolo di ventotto anni prima, allorché Silvi Marina era stata teatro di altri cinque set epici, un Jimbo Connors indemoniato e dominante su Krickstein a New York, nel giorno del suo trentanovesimo compleanno. Quel 2 settembre 1991 c’era Tele+, c’era Lombardi con Scanagatta, c’erano Falcone e Borsellino e c’erano i miei genitori, ma questa è un’altra storia.