Chi non ha figli deve riscoprirsi bambino e stupirsi per le cose del mondo, anche le più piccole, proprio le più piccole, altrimenti invecchia presto e male.

Stasera cinema. Non lontano da Silvi Marina resiste il Porto Allegro, ingombrante centro commerciale e luogo tristissimo, a dispetto del nome. Al secondo piano ospita un multisala: dei multisala spazzerei via con gli idranti le famigliole vestite a festa, intrise dell’olio spesso del popcorn, che intasano le code alle casse, i cessi e ululano durante il film. E la moquette, le uscite di sicurezza, i giovinastri svogliati addetti allo strappo del biglietto. La mia sordità, però, sta galoppando e in nessun cinema d’essai sento bene come dall’impianto audio multisalico, la potenza di uno Shuttle, degli Stones al Delle Alpi, di Wojtyla urbi et orbi. E ci sono le poltrone da business class Lufthansa, munite di ogni comfort per rendermi la visione una sorta di lussuoso picnic in dolby surround.

Trovare una pellicola decente nei cartelloni del multisala è come sperare che Boldi mi estorca una risata: solo action movie, horror e commediole yankee per adolescenti. In alternativa, i cartoni. Già, i cartoni. Da quanto non vedo un cartone animato al cinema? The Space del Porto Allegro oggi offre Pets 2 e Toy Story 4. Pets 1 non l’ho visto, mentre un numero di Toy Story, forse il 3, l’ho intercettato in tivvù mesi fa, prigioniero di un maestoso senso di colpa: hai quasi cinquant’anni ragazzo, non puoi mica divertirti con queste bambocciate!

Salgo al secondo piano, lasciandomi alle spalle gelaterie e negozietti di pezze – come li avrebbe bollati mia madre; intuisco subito che sarà una delle mie ultime volte al The Space, già Warner Village, in Montesilvano, Abruzzo. Hanno messo i biglietti a quattro euro e novanta, tutti i giorni, tutto l’anno. Le casse sono chiuse, si paga all’omino dei popcorn, uno e trino giacché vende cibo unto, fa i biglietti e regola il flusso degli spettatori: «Prego, sala 4, se non mangia niente, può andare, è lì a sinistra». L’accento è locale e il garbo pure. Tira aria di serrata entro cinque, sei mesi. Non aiuta che alle sette di sera di un martedì estivo io sia l’unico alla cassa-chiosco.

«Ma questa novità dei biglietti a cinque euro?» chiedo. «A noi sta bene, finché ci tengono qua…» risponde lui, maestro di spicciola filosofia statalista, forse condivisibile, di certo deprimente. Prima di salutare il factotum, saccheggio una porzione gigante di nachos giallissimi in salsa piccante rossissima, convinto che quei tre euro extra di solidarietà salveranno il posto all’uomo, presto in esubero.

Entro nella sala 4, la vastità di Piazza Tienanmen: centinaia di poltrone su tre livelli a due metri l’una dall’altra, che ci si può sdraiare in mezzo. E uno schermo come un campo da tennis. Il film inizia alle 19, sono le 18 e 55 e non c’è nessuno. Che faccio, rispetto il posto del biglietto, da uomo beneducato che fa sempre la cosa giusta? Oppure okkupo? Chiunque mi stia aspettando per il giudizio universale mi perdonerà, okkupo: il posto più equidistante dalle pareti laterali e dal fondo. Al centro esatto della sala, mi predispongo per la visione perfetta. Sta per avverarsi uno dei miei sogni più erotici, una sala privata dove bearmi in solitudine della mia arte preferita, come i ricchi veri: gli sceicchi, gli oligarchi russi, Briatore.

«Mamma, dove ci mettiamo? Io voglio il posto col buco per la coca.»

Prima che una forma d’arte, la più completa, il cinema è una liturgia imbevuta di dogmi: occorre spazio per accogliere i fedeli, tempo per raccontare e, soprattutto, silenzio per penetrare i cuori. La famiglia che sbuca dal corridoio laterale – mamma smunta con due mocciosi, uno parlante, l’altro troppo piccolo per farlo – e sale i gradoni della sala 4 fino a sedersi dietro di me, pare intenzionata a profanare il dogma-silenzio. Io dico: madre, hai il Titanic a disposizione e proprio qua dietro ti devi sedere, col tuo corredo di probabili, anzi sicuri, scartocciamenti di patatine, puzzette e gridolini di giubilo delle sacre creature? Dev’essere la punizione divina per essermi scelto un posto privilegiato e abusivo.

Non posso spostarmi, perché intanto è sceso il buio e sono partiti i trailers, la parte della liturgia che preferisco. Dureranno venti minuti, alcuni si ripeteranno anche tre volte – il Re Leone per esempio, di cui so già tutto senza bisogno di vederlo – ma me li voglio godere. Primo scartocciamento di patatine. Primo gridolino di giubilo all’apparizione di Elsa di Frozen, quella che può ghiacciare qualsiasi cosa, perfino i bambini. Per ora mancano le puzzette, ma saranno due ore di passione.

Toy Story 4, alla fine, inizia. Appare subito chiaro che è un film per adulti. Tutti i cartoni animati sono film per adulti camuffati, fatta eccezione, forse, per Peppa Pig, che comunque ostenta simbologie parecchio pruriginose. I bambini possono ridere e ridono quando un coniglio-peluche fa le smorfie o un cowboy-pupazzo inciampa in una puzzola. Ma la fantasia, la sublimazione dell’amicizia e dell’amore, il Pensiero Positivo, l’ironia, l’apologia della lealtà, il primato del coraggio: quelli, i bambini non li possono capire. Toy Story 4 è zeppo di tutto ciò, nell’apparentemente banale vicenda di un giocattolo che deve salvare un altro giocattolo per la felicità di una bambina. Ogni scena pesca in un serbatoio infinito di trovate geniali, citazioni, mirabolanti effetti di grafica computerizzata: che saranno pure malvisti dai talebani dell’analogico di Dumbo e Topolino, ma sbalordiscono per realismo e immaginazione insieme. E si ride, si piange, si ama, si sogna: la vita, in un cartone.

Succhio i fotogrammi fino ai titoli di coda, interminabili, centinaia di persone coinvolte nel progetto, come e più di un film con attori veri. Nella penombra, con la coda dell’occhio spio l’esodo delle piccole pesti, più silenziose e inodori di quanto pensassi, e ne immagino lo sconcerto: «Mamma, ma quel signore è vecchio, perché guarda i cartoni? E perché non esce con noi?» La madre smunta avrà le sue stanche spiegazioni da vendere.

Mentre la famigliola scompare, io aspetto che scorra l’ultima scritta sullo schermo, col desiderio fortissimo che non arrivi mai: così da perdermi per sempre nell’universo virtuoso dei giocattoli, che in fondo, come noi, vogliono soltanto essere amati.