È nella bolla, la cantilena del silenzio sporcata dagli echi sordi dei passi. Il sangue pompa a livelli di guardia, si ossigena, si droga d’aria. Il pensiero fluisce nei muscoli, i muscoli fluiscono nella strada.

Ha sempre corso, di gamba e di cervello. La prima istantanea in movimento lo riporta molto indietro: metà anni Ottanta, quindicenne, macina dieci chilometri di Sempione a piedi, da QT8 ad Arese, a caccia dei propri limiti. All’inizio del 2011 correre diventa più importante. Sua madre si è congedata da un anno e lui ha rinchiuso il dolore nel sottoscala dell’anima per puntellare l’edificio esistenziale del padre. Trascurato, il dolore sfonda la porta e risale fino ai piani alti della consapevolezza; il lutto penetra l’armatura e lui trasfigura nell’asfalto l’idea inaccettabile della perdita. Metro dopo metro, chilometro dopo chilometro, riempie i vuoti e svuota i pieni molesti. Serve però un obiettivo su cui concentrare tanta applicazione, perché le ombre sono in agguato: punta forte e convinto sulla maratona. Da libri e amici assimila consigli e strategie, prende a dormire meglio, mangiare meglio, correre meglio, pensare meglio: in cinque mesi inocula un maratoneta nel corpo cedevole e smarrito di un quarantaduenne sovrappeso, orfano di madre e zoppo di padre.

La prima è a Pescara, in ottobre, a oggi la sua migliore prestazione, uno sfolgorante quattro-ore-venti-minuti-dodici-secondi. All’arrivo piange, di gioia, di fatica, per sé, per Bianca: l’esorcismo è riuscito, ha sculacciato il demone. L’anno successivo si iscrive alla marcia su Roma, per allontanare di altri 42 km i fantasmi. Nella capitale, a metà gara, costeggiando l’amato Foro Italico, il polpaccio sinistro si stira e lo costringe al passo fino al Colosseo; ferma il cronometro a un vergognoso sei ore e spiccioli, ma gli mettono lo stesso la medaglia al collo. Nel 2013, Parigi. La Ville Lumière accende tutte le luci: si parte dai viali, si tocca il museo, la torre, il fiume e si atterra trionfali al centro del parco. Nel suo fervido ottimismo della volontà, ha calcolato di chiudere in quattro ore e trenta, massimo quaranta. Ma la partenza ritarda di mezz’ora; le pendenze dei tunnel lungo la Senna gli indolenziscono il solito polpaccio fedifrago, al punto da imporgli sosta e massaggio; il proposito di un’accelerazione negli ultimi 6-7 km resta un proposito e l’uscita dal Bois de Boulogne non è la scampagnata prevista. Peccato, senza incidenti di percorso si sarebbe cambiato con agio nell’alberghetto di Rue Cremieux, avrebbe raggiunto Beatrice alla Gare du Nord e, insieme, avrebbero preso il tgv delle 17 per Milano. Invece perde il treno e Bea torna in patria da sola. Il giorno seguente, per nove ore divide una maleodorante cuccetta loculo con tre algerini mai zitti, destinazione casa e lite coniugale. Sette mesi dopo corre a Firenze. È nei pressi di Ponte Vecchio che, in riserva, si pone l’interrogativo incubo di ogni maratoneta: ma a lui chi cazzo glielo fa fare? Ha superato la morte della madre, sorretto il corpo imbalsamato del padre, è andato oltre se stesso e si sente migliore: forse è tempo di rottamare la filosofia dell’uomo in continua evoluzione.

Sospende le gare fino al 2019, l’anno dei cinquant’anni, l’anno in cui chiude in gloria la carriera di podista con la maratona che tutti vogliono correre: New York.

La Maratona di New York è l’America. C’è l’organizzazione maniacale: si viene incanalati con educata fermezza nelle code all’imbarco per Staten Island, nelle code alle navette per Fort Wadsworth, nelle code all’ingresso del village, del corral, della wave; dopo due ore di “Please, Sir” ci si ritrova catapultati in mezzo al biscione di carne che striscia fino al Ponte di Verrazzano. C’è il culto del successo, il comandamento del Se voglio posso, Se ci credo ottengo contamina le grida di ammirazione dei newyorchesi: «You got it», «Great Job», «Touch here for power», l’esaltazione fanatica della volontà e dell’autodeterminazione incarnate nello sforzo dei sessantamila eroi di giornata. E c’è l’entusiasmo fanciullesco: ai bordi delle avenues, americani rosei, olivastri, bruniti, giallognoli, gli occhi glaciali, polverosi, sporgenti, obliqui, acclamano i maratoneti come fossero Washington, Zapata, Mao, Malcolm X.

Ha deciso di correre senza cuffie e assaporare ogni morso della mela, ascoltarne il giubilo, fermarsi alle curve, tradurre l’ironia dei cartelli: “You think you hurt, my arms are killing me”, “You have run more than Di Blasio did”, “You look hot while you sweat”. Alcuni sono inoppugnabili, “Finishing is the only option”, “There’s power in pussy”; altri commoventi: “We believe in you!”. New York può sedurre o intossicare, ma quando migliaia di persone scendono in strada e al freddo aspettano il tuo passaggio per dirti che credono in te, devi dimenticare i conflitti estetici e incidere per sempre sulla rétina quella dichiarazione d’amore.

Dovrebbero chiamarla Maratona di Brooklyn, la prima metà passa da lì ed è la più eccitante, perché i maratoneti non sono ancora concentrati soltanto sui propri organi, interagiscono, si avvicinano alle transenne e danno il five al ragazzino tarantolato dalla gioia. E perché, a Brooklyn, c’è la gente di Brooklyn. La gente di Brooklyn non sfreccia con auricolari e tacchi alti tra le geometrie sorde di Manhattan; non si barrica irrancidita nei fortini del Bronx, non si disperde tra le villette del Queens. La gente di Brooklyn si riversa in strada, suona, balla, spalanca le braccia e regala cioccolato. Nella parte messicana viene sollevato di peso dagli incitamenti e mentre galleggia a mezz’aria si bea di anziani rocker che seviziano una Gibson e di sdrucite Joan Baez in guerra per la pace. Gliel’hanno detto, qui non è come a Parigi, dove i citoyens ti seguono ma composti, trattenuti, delegando alle perle della città l’onere di farti compagnia. Non è Roma, che resiste un paio d’ore, cede ai fumi dell’amatriciana e ti abbandona tra Ponte Milvio e i Fori Imperiali. Questa è New York e nel crepuscolo di Central Park, sette ore dopo la partenza, ci saranno ancora famiglie e coppie in multicolor ad applaudirlo, prima dell’aperitivo al Flatiron Building.

Alcuni brevi tratti, per lo più nel Bronx e nel Queens, sono presidiati ma tiepidi; sui visi stanchi dei residenti si legge un obbligo civico al tifo, sennonché pare svuotato della giusta convinzione. Un vistoso e brutale deficit di attenzione avvolge il quartiere ebraico di Williamsburg, che chiude Brooklyn a nord. Qui i maratoneti sembrano dare fastidio. Uomini bassi con in testa un cilindro nero da cui scendono boccoli neri e donne austere, incellofanate da cappotti di lana nera, trottano sui marciapiedi senza dedicare loro uno sguardo, tra gli sbadigli dei poliziotti che sbarrano le vie laterali. Succede a metà del tragitto, quando la postura s’ingobbisce, la mente balbetta, le ginocchia abbassano lo slancio e, ancor più dei liquidi energetici, servirebbe il calore avvolgente del popolo americano. Lui pensa alla Shoah, perdona quegli uomini bassi, quelle donne austere, e tira dritto.

I maratoneti di New York sono meno bizzarri dei colleghi parigini e romani, vestiti da Napoleone o da centurioni: l’intenzione è correre, non esibirsi. Poche mascherate, pochi istrionismi, molti cuori solitari: cuori sovrappeso, sovraetà, sovrappensiero. Nell’andamento ondivago del passo – corsetta, marcia, sosta, accelerazione, di nuovo corsetta – ci si incrocia spesso, si supera e si viene superati. C’è questa coppia francese nei paraggi dei settanta; tutte le volte che li affianca o lo affiancano, i due sono l’una accanto all’altro, le mani intrecciate, il ritmo sincronizzato. Indossano entrambi una cerata blu che pubblicizza il sito contrastes.com, si appunta di navigarlo nella parte ancora senziente del cervello. Ogni tanto gli si accosta una ragazza robusta dal passo corto e ansimante. Ha due scritte sulla canottiera fucsia, “For Dad” in alto, “Imagine a world without cancer” al centro. All’ennesimo sorpasso pensa di accarezzarla, con cautela, su un braccio, ma non lo fa, non capirebbe. Poi Gianluca, col nome stampato sulla maglietta traspirante, solo, il mezzo secolo appena scollinato. Corre e cammina, cammina e corre, in pratica il suo clone. Non mancano gli extraterrestri camuffati da umani, androidi, quasi tutti di genere femminile, al cui cospetto arrossisce il pur encomiabile sforzo dei comuni mortali. Un’aliena ha varcato il ventesimo miglio in stampelle; un’altra sta cavalcando l’ultimo in carrozzina; un’altra trascina centotrenta chili di risolutezza oltre la linea blu. Tanta forza lo incanta, lo stordisce, lo scoraggia, dovrebbe ritirarsi per manifesta inferiorità morale. Non essere grasso o invalido non può però diventare una colpa, merita anche lui la medaglia e un bagno caldo a Chinatown.

A dispetto dei recenti disastri muscolari e del pellegrinaggio in New England, il corpaccione pare reggere. La formula “Cinque chilometri li corro e cinque li cammino” sta funzionando; la gamba sinistra non gli duole, il cuore, che a riposo stantuffa quarantadue volte al minuto, sembra sostenerlo anche oggi. Tutto cospira a che termini la gara. Dal miglio 15 al miglio 19, entrato a Manhattan dal Queensboro Bridge, si permette l’andatura di quando è ben oliato, quei sei minuti al chilometro che credeva una chimera. In un rigurgito di euforia pensa di tenere il ritmo abituale fino al termine, ma una fitta al polpaccio, insaccato in una calza elastica seicento denari che a stento fa fluire il sangue, lo rinsavisce e torna al passo: ci sarà modo, tra quattro o cinque ore, di vincere lo sprint dei disperati. I maratoneti intanto scartocciano le scorte di carboidrati e riserve idriche, fiumi di bicchieri alluvionano le strade dell’Upper East Side. Ai margini degli occhi, il popolo di New York si è rarefatto, slabbrato, pochi cori, sparuti cartelli, la maratona sta passando di moda e il testimone a qualche altro great event.

Alle pendici del ventiquattresimo miglio una carriola di gesso gli cola nei quadricipiti paralizzandoli, annichilita qualsiasi velleità di chiudere al galoppo: non si allena da due mesi, tocca accontentarsi di essere ancora in piedi. Un socio però ora aiuterebbe, già che sorrisi e incitamenti dei newyorkesi si sono fatti assai flebili. La provvidenza gli affianca Mattia, un imponente ragazzotto trentino terrorizzato di non ricevere la medaglia se termina oltre le sei ore; lo rassicura, basta arrivare in fondo, anche alle due di notte. Mattia gli si piazza accanto e lui finge di accoglierne la tacita richiesta di supporto, sperando in cuor suo che sia il giovane a sostenere lui nell’ultimo miglio. Si forma così una strana coppia dall’incongruo dislivello anagrafico, il ragazzo sembra più maturo ma ha esattamente la metà dei suoi anni. Mattia vanta un paio di sorprendenti mezze maratone, tuttavia la stazza gli ha presentato il conto e adesso è distante ore dal compagno d’avventura, quel papà della fidanzata ben allenato e sotto la doccia da tempo. Il ritmo del passo precipita e i due chiacchierano come pensionati al parchetto. Mattia fa l’informatico, viene spesso a Milano e soffre di comuni ansie dell’età. Sembra equilibrato, purtroppo parla più di quanto ascolti e fatica a tributare la dovuta attenzione nei confronti della spettacolare esistenza dell’occasionale padre putativo.

Ormai è buio. Nella notte è scattata l’ora solare, frana così il sogno di attraversare il traguardo nel rosso del tramonto che ieri a quest’ora imporporava Central Park. L’ambizione di chiudere correndo però è ancora viva. Mattia non ne ha più e si danno appuntamento sul podio, medaglia al collo, mentre lui rimette in moto i garretti per la volata finale. Corre di ossa, di nervi, di unghie, le scarne tracce di muscoli non sfibrati sono prigioniere del gesso e inutili alla causa.

Cinquecento metri, siamo nel parco; ai confini del viale, ancora americani infagottati che non smettono di sospingere i sopravvissuti. Trecento metri, la gloria, quella vera: si decentra, punta le transenne e tende la mano. Si affacciano decine di mani e le schiaffeggia tutte urlando: «Bagno di folla, voglio un bagno di folla!» senza freni, senza vergogna. Duecento metri, le bandiere. Ieri si è fatto una foto sotto il Tricolore, oggi non ne riconosce nessuna, sa solo che manca un niente e aumenta di qualche decimale la velocità. Cento metri, sui lati scorrono le tribune, vuote, piene, non lo capisce, raggruma le energie residue intorno alla luce bianca dell’arrivo che illumina l’asfalto. Venti metri, rallenta. Se il polpaccio lo tradisce, striscerà sui gomiti e gli metteranno la medaglia in bocca, come le crocchette ai cani. Dieci metri, è il momento del videoselfie. Dà la schiena al traguardo e lo taglia in retromarcia, il faccione congesto ben impresso nello schermino del cellulare. Niente lacrime o inginocchiamenti, il semplice orgoglio di una cosa portata a compimento, con lentezza e gratitudine.

Nei minuti che seguirono, la realtà perse consistenza. Ritirò la medaglia, il poncho antiassideramento e, dopo altre quaranta miglia di vialetti, la sacca con il cambio; si spogliò nell’angolo più scuro e umido di un Central Park ormai frequentato soltanto da netturbini, puttane e pusher. La gloria che al freddo, in mutande, nelle gambe tanto acido lattico da sfamare un reparto di neonatologia, sembrava appassita, quella gloria avrebbe gemmato nuovamente allorché in metropolitana, alla reception dell’hotel, in coda al check-in, sull’aereo, impiegati americani, albergatori cinesi, turisti italiani e hostess portoghesi avrebbero indicato la medaglia e si sarebbero congratulati per l’impresa: «Good job, man!»