Non amo i funerali. Sarà che mi irrita il compunto chiacchiericcio che si sviluppa ai bordi della cerimonia, un misto di pettegolezzo scivoloso e cordoglio di facciata. Sarà che si celebrano in chiesa, dove non entro più volentieri e fa sempre molto freddo. Sarà che sono stati troppi i miei funerali. Vado solo a quelli inaggirabili, che riguardano persone care e meritevoli del mio sacrificio. Oggi ho fatto un’eccezione: avvisato da un amico comune, ho voluto salutare di persona una donna speciale; che era speciale, però, l’ho scoperto stamattina. Dalla difficoltà nel trovare parcheggio in una zona di norma deserta, ho capito che si trattava di un rito collettivo, del ritrovo di un’immensa famiglia attorno a una figlia. Avvicinandomi a piedi, ho cominciato a vederne le facce, della famiglia: facce tirate, spente, mute. Determinate nel testimoniare vicinanza e gratitudine, stavano marciando compatte verso il centro sociale Pertini, la chiesa laica, anonima, spoglia, scelta dalla donna speciale. All’ingresso, un’onda di bandiere rosse con falce e martello: chi era davvero Cristina? Per me era la bibliotecaria con la faccia da ragazza, disponibile a uno scherzo, un consiglio e un sorriso ogni volta che la incontravo al bancone per ritirare un libro. Niente di più ma niente di meno, in questo tempo incarognito e tumefatto. Per i presenti è chiaro che era molto di più.
Lo stanzone rettangolare che ospita il feretro è gonfio di gente, tanto che molti sono assiepati fuori, a ridosso delle porte spalancate; ma senza spingere, senza l’ansia di presenziare, conta essere qui, nient’altro. Riesco ad affacciarmi nella sala in modo da vedere la bara, i fiori e, dietro, il palchetto per la musica, che risulterà la vera protagonista della liturgia laica. Quando si pensa che ci sia abbastanza gente, comincia il funerale più toccante e anomalo cui abbia partecipato. Una canzone triste e fiera, un fado, si diffonde nello stanzone e sembra non finire mai. Ma finisce e prende la parola un signore dal viso buono, ordinario, che diventerà il traghettatore, il prete borghese di questo rito pagano. Lo schema è semplice ed efficace: alternare gli interventi della straordinaria famiglia allargata di Cristina alle musiche da lei scelte. Il fado rimarrà l’unico brano non suonato dal vivo, dopodiché un susseguirsi di voci, chitarre, sax e violoncelli, perfino un commovente canto a cappella. Il livello artistico non è eccelso, tuttavia la voglia di testimoniare che sì, conoscere Cristina era un privilegio, relega la qualità a un ruolo marginale, ininfluente: il manifesto più autentico di come ci si debba affidare all’arte, qualunque arte, per esprimere i sentimenti più profondi; di come ci si possa riuscire anche stonando e seviziando una chitarra.
La staffetta tra musica e parole via via trasforma la bibliotecaria solare dei miei ricordi in una donna impegnata politicamente e socialmente. Parlano i colleghi di Rifondazione Comunista, e pazienza per il “compagni e compagne” affermato con forza e per qualche pugno mancino al cielo. Ricordano l’attivismo e lo spirito umanitario di Cristina trasfusi nelle decine di manifestazioni organizzate e condivise: mi tornano in mente le chiacchierate con lei appena rientrata da un flash mob romano o una fiaccolata veneta. Parlano i colleghi della cgil e scopro che era sindacalista delegata per il Comune. Ne esaltano l’animo combattivo e solidale, e di nuovo pazienza per i pugni chiusi. Parlano i colleghi dei centri sociali e delle cooperative, cui dedicava molto del suo tempo. Parlano i colleghi del Coro della canzone resistente, appassionati degli inni partigiani, e stavolta niente pugni. Parlano i colleghi della biblioteca, a nome dei tanti utenti occasionali presenti: voci infrante e occhi fradici. Parlano, o cercano di farlo, gli amici, quelli di una vita e quelli recenti. In tutti gli interventi Cristina viene descritta come allegra, colta, generosa. Parole sincere, sentite, non le ipocrite ovazioni post mortem tributate con meccanica disinvoltura a chi ci ha lasciato, delinquente o santo che fosse. Tra le frasi più belle grosso modo questa: «Vederti andare via dopo averti conosciuta è una grande perdita, ma non conoscerti sarebbe stata una perdita ancora maggiore». Non mancano gli applausi: gli applausi ai funerali li detesto, oggi però mi sembrano giusti, democratici, l’occasione per chi non parla di ringraziare la donna speciale. In questa bolla di sacralità urbana, osservo bene il popolo di Cristina. È orgoglioso di essere lì, portatore di un dolore positivo. È vestito di cappotti e piumini pensati per coprire e riscaldare, non esibirsi. Non vedo borse luccicanti, nessuna scarpa acuminata, qualche capello colorato ma di tinte tenui, accenni di ricrescita. È un popolo di lavoratori e lavoratrici, non tutti comunisti ma tutti fieramente antifascisti. Poi parlano i figli: sapevo di Giulia, ignoravo l’esistenza di Manolo. Giulia fortissima, lucida, essenziale, ha ereditato la passionalità della madre. Giura di proseguire la sua missione, quella di credere in un mondo migliore, senza ingiustizie e fame e guerre. Imagine all the people living life in peace, sognava John e sogna Giulia e sognava Cristina. Vorrei sognarlo anch’io, ma il mio idealismo è sepolto sotto tonnellate di rassegnazione e intolleranza. Manolo ci fa sorridere e soffrire, più di tutti incarna la cifra di spontaneità che pervade ogni secondo della cerimonia. Parla a braccio, confessando il risentimento di un bambino trascurato per una riunione di partito, un’assemblea del sindacato, una mobilitazione di piazza. Un bambino che non capiva ciò che da uomo avrebbe rimpianto: la determinazione esemplare di una donna che rubava sì tempo alla famiglia, ma per occuparsi della più estesa comunità degli esseri umani.
Dopo un’ora e mezza ho lasciato il centro Pertini, mentre al microfono si avvicendavano ulteriori testimonianze di affetto per la compagna, l’amica, la madre, per quella bibliotecaria con la faccia da ragazza di cui ho conosciuto l’anima soltanto alla morte.
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