Siamo gli stregoni. Ci chiedono l’immortalità o l’elisir di lunga vita. Se manca la pozione magica, ci chiedono almeno di stare meglio.

«Dottoressa, mi fa male lì, nelle parti basse, lì sotto insomma, ha capito, no? Ce l’ha qualcosa per togliere il fastidio? No, perché gratta forte, ma forte forte…»

«Dottoressa, ho un’emicrania che mi scoppia la testa, non riesco neanche a parlare, mi aiuti lei…»

Ci sono richieste che aprono uno squarcio sul dolore, quello vero: il cortisone, il metadone. Foglietti bianchi e rossi appoggiati sul bancone in silenzio perché parlano di antidepressivi. Ci sono gli occhi bassi del vecchio in cerca di pannoloni e omertà. Quelli ansiosi del ragazzino che nasconde fino all’ultimo i primi profilattici. C’è l’ex bella donna in missione al reparto antiaging, convinta che un unguento ripari i danni di migliaia di sigarette. Conosciamo i vizi e gli acciacchi di tutti.

«Dottoressa, sto cominciando a perdere i capelli, è la terapia, non è che sa di qualcuno che vende parrucche, ma vere, di capelli veri, perché quelle finte si vede che non sono i miei…»

E dobbiamo sorridere, se lo aspettano, anche quando il mal di vivere ce l’abbiamo noi: ma vendiamo pozioni magiche e la realtà è un malanno che non ci possiamo permettere.

«Signora, la crema per la candida è detraibile: ce l’ha il tesserino col codice fiscale?»

Siamo i servitori. Abbiamo una laurea in tasca o un talento che il mondo non riconosce. Trasciniamo una vita ordinaria che vorremmo solo un po’ più comoda. Perché il frastuono dei bicchieri che sbattono, l’urlo del frullatore, la marea di voci in sala. Perché i piedi esausti dopo chilometri a correre da un padrone all’altro, dentro e fuori.

«Cappuccino chiaro per me con brioche al gianduia, e spremuta di pompelmo rosa con crostatina alla mela per la mia signora.»

«È pronta la meringata per il compleanno di mio figlio?»

«Scusi dovrebbe pulire il tavolo che ci sono ancora le briciole di chi c’era prima.»

Perché le domeniche, quando le mandrie assediano la cassa per santificare il giorno di festa con i pasticcini. Perché i ragazzini bercianti delle due, appena finita la scuola.

Potremmo, dovremmo trovare quel posto di ricercatore al dipartimento di Biologia o restaurare gli affreschi delle ville palladiane. Guadagnare trecento euro in più per cambiare la lavatrice. Per ora, però, facciamo questo e il nostro valore trasuda da questo bancone, da questi portacenere.

«Il cappuccino lo vuole col cacao o la cannella?»

 

Siamo i pontieri. Ci portano la vita che non serve. Se ancora serve, vale di più venduta. La sciura con la ricrescita e una pelliccia sfibrata sottobraccio: «Io la vorrei tenere, sa? È un ricordo, mia nonna la metteva sempre, ma a me non va, sono larga di spalle, lei era uno scricciolo, se l’è portata via un ictus. Il pelo è ancora buono, a quanto la può mettere?»

Glielo dobbiamo dire che l’oggetto non vale il ricordo. Che le pellicce oggi non le vuole nessuno. Un piumino spiumato, un cappottone sbiadito, quelli qualcosa rendono. Ma la pelliccia. Ci sono quelli che comprano. La signora bene a caccia di una pendola per quell’angolo vuoto della casa di campagna. Il pensionato che studia con attenzione gli sconti, perché due euro possono fargli la differenza: «Scusi, non trovo il prezzo, quanto costano questi guanti di lana?»

Qualcuno si vergogna e sta zitto: e se gli chiediamo una cifra che non ha? Li dobbiamo trattare tutti con rispetto, i poveri. Vecchi e nuovi.

«Signora guardi, la pelliccia gliela prendo lo stesso, poi vediamo.»