Nel momento in cui deposito la valigia sul nastro della TAP, avverto lo sguardo bilioso delle anime in pena immobili da ore nella fila accanto, quella di chi è sprovvisto del check-in online. Per un attimo mi chiedo se siano al corrente di una dimensione parallela chiamata Internet, poi mi allontano sogghignando, alleggerito in pochi minuti del mio bagaglio.
Malpensa brulica di viaggiatori perché da un po’ raccoglie anche i passeggeri di Linate, fermo per lavori di manutenzione. Mentre mi sposto verso il Gate 21, dal magma umano spuntano antropologie interessanti. Padani in salopette corta e cappello appuntito di feltro grigio rientrano dalla Baviera, ancora mezzi ubriachi di OktoberFest. Falangi di coreani clonati si preparano a lasciare interi stipendi sul pavé del Quadrilatero della moda. Orde di britannici new age vanno a caccia di un casale nelle Langhe o in Lomellina o nel Chianti, basta che si beva e ricordi il Devonshire. Resterei giorni a studiare i flussi migratori dei miei simili ma, per la prima volta in vita, devo esplorare il Duty free, la versione aeroportuale e de luxe dell’area parmigiani&culatelli in autogrill.
Sguscio via dalla folla, entro nel paradiso delle merci e mi fermo da Rolex. Non cerco un lampadario da polso, ho smesso di portare orologi da un decennio: mi serve solo un’abile manina che, munita di cacciavite, stringa la vite della stanghetta destra dei miei occhiali da sole, che balla pericolosamente. Al banco c’è una ragazza elegante e altera in stile Rolex. Sta servendo una giapponese sciatta che gioca a fare la nobildonna provandosi un cinturino placcato dopo l’altro. È chiaro che non comprerà nulla, com’è chiaro che la venditrice non può non assecondarne le voglie di ricchezza. Finito il momento di gloria dell’orientale, espongo il mio problema alla bella commessa dal marcato accento siberiano. In pochi secondi estrae uno strumento di alta precisione e, con l’accuratezza di un chirurgo, avvita fino a fine corsa la stanghetta degli occhiali. Vorrei comprare una pendola da un paio di etti solo per ringraziarla e portarla a cena, ma mi limito ai cordiali salamelecchi di rito.
Lisbona
L’operazione ha ritardato l’accesso al gate, che ora è intasato da gente in coda, quaranta minuti prima del decollo. Dalle casse gracchia una voce piatta: che avanzino i passeggeri senza bagaglio a mano. La coda-fiume si dimezza, ma da destra e da sinistra si uniscono gli affluenti dei soliti furbetti. Passa il businessman col parrucchino rossiccio. Passa l’ottuagenario in completo Quechua che ha perso l’orientamento. Passa la comitiva di sciure, tutte coi capelli corti mezzi grigi, tutte col fazzoletto gialloblu al collo che recita “Pellegrinaggi Torino”: un gruppo di suore laiche che cerca di guadagnare posti nella fila, che piacevole sorpresa! Tengo la posizione nel guado, difendendola dalle beghine, dal vecchio e da Trump. A pochi metri dal ragazzo emaciato che controlla i documenti, vengo investito da un ometto con barbetta bianca il quale, pur avendo già oltrepassato il Checkpoint Charlie, rincula impazzito verso la coda: una signora, nera, non si sente bene, e l’ometto è un soccorritore. Mi imbarco sognando un mondo di soccorritori e non di pellegrini.
Smaltisco annoiato le due ore di volo che si chiudono con l’applauso di mezzo aereo all’atterraggio sulla pista dell’Humberto Delgado; siamo ancora agli applausi come ai tempi di Lindbergh, quando volare era un continuo duello con la morte: non c’è requie per l’animo umano e i suoi esorcismi. Sono a Lisbona, ci dormirò una notte prima di volare a Boston. E sono leggerissimo, la valigia grande della lista nozze del 2001 me la spediscono direttamente in Massachusetts. Con me ho solo lo zaino con l’orso della California preso al Pier 39 e il giubbottino glamour griffato mio malgrado.
Praça do comércio
L’aeroporto Humberto Delgado è un gioiellino, luminoso, ampio, pulito. Passati i controlli, esco nell’area Arrivi e mi colpisce il viso stanco di un autista con un cartello in mano: sta aspettando Fiona, Christine e Bridget. Immagino tre ventenni americane al loro primo viaggio su quel pianeta ignoto chiamato Europa, anni luce dalle casette bianche con giardino dell’Ohio. Le vedo avvinte ai giovanotti de ‘sta Roma bella, giusto un filo più disinibite di Audrey Hepburn. Cariche di pacchi dorati su via Monte Napoleone che hanno preferito al Cenacolo. In trasferimento da Malpensa a Lisbona in infradito e bermuda fucsia, un etto di mascara sulle palpebre, sognando la movida lusitana dopo quella di Trastevere. E poi Barcellona, Berlino, Parigi.
Parigi: mentre lascio l’autista alla sua condanna di wow e profumi dolciastri ed entro in una metropolitana livida e spoglia, la memoria mi riporta alle stazioni di Trocadero o Saint-Germain, coi soffitti a botte in mattoncini bianchi, capolavori sotterranei illuminati a giorno e spesso affrescati. Lisbona non vale Parigi, ma, a parte la metro, è una meraviglia: una giostra di colori tra spianate e salite, coi tram gialli che ne portano il sangue dal cuore alle colline in uno sferragliare festoso e antico. Il castello di São Jorge, le vie squadrate della Baixa, fino al fiume che sembra un mare che sembra un fiume, accovacciato ai piedi di una piazza ventosa dove le migliaia di turisti si disperdono tanto è larga. Ma è quando s’arrampica che Lisbona si fa unica: sale più di Roma e meno di San Francisco e lo fa in modo diverso, nervoso, dritto, aggrappandosi al Bairro Alto, ai Miradouros, a Graça, dove vivono i veri Portoghesi. Poi riscende e costeggia le acque calme del Tago fino a Belem, tra nuvole nerastre e fasci di sole, pioggia atlantica e afa mediterranea. Perché anche il tempo qui è nervoso e cambia umore ogni dieci minuti.
La metropolitana mi scarica a Baixa-Chiado e da lì comincio a camminare per catturare l’anima della città. Tonnellate leggere di ferro battuto pendono dai balconi e prendono all’amo lo sguardo, come a Lecce quando si ammira il Barocco. Mi aspettano in Rua de Atalaia, ma l’accoppiata Largo do Chiado e Praça Luis de Camoes merita una sosta. E il primo pastel de nata.
Praça Luis de Camoes
Lo trovo al Quiosque de Lisboa, una caffetteria minuscola inscatolata in un cilindro liberty, che da almeno cent’anni occupa il centro della piazza. Pastel de nata in mano, occupo un tavolino con vista sulla manifestazione pro-curdi che infiamma Praça de Camoes. Mentre mi gusto la tortina di crema, cannella e pasta-sfoglia, osservo l’armamentario trito dei pur volenterosi manifestanti: tatuaggi, dreadlocks, megafoni; bandiere con Ochalan al posto del Che e striscioni sinistri di mitra e fucili, un po’ dissonanti con i dichiarati propositi di pacificazione internazionale. Ma si sa che la guerra la si può anche fare, basta che sia al nemico giusto. Quando il trambusto supera la mia soglia di sopportazione, lascio i protestatari al proprio, mediocre destino e imbocco Rua de Nova Trinidade verso il mio di destino, al Bairro Alto.
Rua de Atalaia è la sintesi di tutto il quartiere: stretta, acciottolata, decadente e magnifica. Raggiungo il 221, luogo dell’appuntamento, ma non c’è insegna, non c’è campanello e non c’è nessuno che mi aspetta. Decido di lanciare un paio di fischi per indurre qualche anima pia ad uscire sull’immancabile balconcino di ferro battuto che svetta sopra la porta. Al secondo richiamo, si affaccia una donnina, incuriosita da questo forestiero che disturba la quiete ronzante della via. Potrebbe avere quaranta come settant’anni e veste in modo povero, ma dignitoso. Le chiedo se esiste e, nel caso, dove si trova il proprietario. Lei risponde con ampi gesti delle braccia poi scappa in casa, per riapparire un attimo dopo insieme ad una ragazza grassottella, dev’essere la figlia, quella che sa bene l’inglese ed è lì per aiutarmi. L’inglese la ragazza lo ignora come la madre, ma la freschezza giovanile la illumina e menziona un certo Paulinho che immagino essere il proprietario contumace. Parliamo come Colombo e gli indigeni nel 1400, poche frasi e molti ammiccamenti, alla fine capisco che Paulinho gestisce un bar svoltato l’angolo e che lo troverò lì. Ringraziate le congiunte poliglotte, vado a caccia del mio albergatore, ma sul tratto di strada che mi hanno indicato le donne ci sono solo portoni scrostati.
Torno al 221 e si riaffacciano madre e figlia. Mentre cerchiamo di risolvere il mistero nell’ormai consolidato linguaggio mimico universale, una figura nera e minuta dal passo lento sbuca dall’angolo: Paulinho.
Bairro Alto
Non ha una faccia propriamente amichevole Paulinho, ma capirò più tardi che è la sua espressione di cortesia, da queste parti badano poco ai convenevoli. L’aspetto più rilevante è che con lui ci si capisce senza ricorrere al non-verbale. Dopo una blanda lamentela per avermi aspettato un’ora sui gradini dell’appartamento, Paulinho accetta le mie scuse e apre la porta blu del 221. Il monolocale si sviluppa in lunghezza: attraversato un mini-atrio, scorrono, in rapida sequenza, due camere, una cucina e un bagnetto. Tutto molto piccolo e comunicante, a dividere gli ambienti solo sottili tende di poliestere arancione. La stranezza è che l’insieme risulta accogliente, forse perché in ordine, colorato e pulito, in apparente distonia col suo proprietario. Paulinho snocciola in fretta le quattro regole da sapere e si congeda, ricordandomi di passare al suo locale per una birra notturna: il bar di Paulinho esiste, è solo chiuso e invisibile a quest’ora.
Dopo aver preso confidenza col grazioso bunker senza finestre che mi ospita, mi sdraio sul letto meno duro per recuperare energie in vista della chiacchierata di stasera col mio amico Domenico, cantastorie pescarese di stanza a Lisbona. Mi sveglio un paio d’ore più tardi, pregustando il momento che preferisco: quando mi libero del fardello del turista – valigie, zaini, guide, buste – e faccio finta di essere uno del luogo, uno che ci vive al Bairro Alto, uno che sta per farsi un giro nel suo quartiere. Una doccia veloce ed esco. Calpestati duecento metri di ciottoli sconnessi, il polpaccio sinistro sotto osservazione da settimane si ridesta dal sonno degli ultimi giorni: più che un dolore, un risentimento, come quello che nutro per lui da tempo. Domenico mi aspetta a Graça, sull’altra collina della città, dove vive: un’ora di cammino tra andata e ritorno. Con una maratona tra tre settimane, è una stimolazione eccessiva per la mia gamba mancina. Spiego l’incidente al mio amico che si dispiace, proverà a raggiungermi lui al Bairro, più tardi.
Nella disgrazia, la fortuna è che alloggio in un rione gravido di ristoranti, seppur zeppo di turisti. Lisbona è tiepida stasera e i tavolini all’aperto aspettano solo me. In Portogallo vige ancora la pratica del “butta-dentro”, ormai desueta anche nel nostro Sud più verace: menu in mano, un omino insegue ed artiglia i passanti per strada esortandoli con energia a testare le virtù del proprio ristorante. Il mio omino è un vecchietto ossuto che staziona davanti al Sabor do Bairro Alto. Sapendo che mi si incollerà addosso, appena mi punta lo rassicuro: che siano sardine, bacalhau o pollo mangerò da lui, mi è bastata la vista delle tovaglie a quadri e delle sedie in legno chiaro.
Rua Augusta
Mi siedo e dal tavolino di fianco giunge frizzante e inconfondibile la conversazione di una coppia pugliese: sono Francesca e Corrado che, appresa la conterraneità, mi invitano ad unirmi a loro. È questo il senso del mio viaggiare in solitaria: se rinuncio al piacere di un essere umano con cui mangiare, ammirare i tramonti, scegliere i souvenir, litigarsi il bagno, discutere ai bivi, è per scandagliare le pieghe più nascoste del mondo e incunearmi senza filtri nelle storie dei suoi abitanti. Un’esplorazione che non sarebbe così piena, attenta, libera qualora fossi costretto ogni volta a dividermi tra il mondo e chi mi accompagna.
Francesca e Corrado sono di Bari, in vacanza a Lisbona dopo qualche giorno a Madrid. Francesca è riccia ma chiarissima di pelle, potrebbe essere bavarese; Corrado è Luca Medici, in arte Checco Zalone. Lei è a casa, le hanno chiuso il call center dove lavorava; lui è in cassa integrazione parziale alla Bosch, incerto sul futuro. Ma sono giovani e vogliono vivere: Madrid e Lisbona siano! Ci raccontiamo le rispettive vite prima e dopo il mio baccalà in crema di patate e in mezzo alle loro tre portate. A tratti ho l’impressione di essere invadente, che Francesca cerchi un po’ d’intimità col proprio uomo; è Corrado, però, che non smette più di parlare. Il cibo finisce, avremmo ancora di che chiacchierare ma domattina ho l’aereo per Boston: è stato un piacere ragazzi, vi auguro davvero ogni fortuna in quel paese agrodolce dove tornerete tra poco.
Pagato il baccalà, muovendomi a malincuore verso il 221 di Rua de Atalaia, mi accorgo che intanto il Bairro Alto ha preso vita. Tutte le insegne dei locali sono accese e mandrie di donne inglesi, olandesi, tedesche, passeggiano birra in mano, ridendo sgraziate. Boston mi aspetta ma sarebbe un crimine non entrare in questo pub irlandese per una Kilkenny. Mezz’ora, giusto per non fare l’anziano che va a nanna di fronte alla movida.
Nel pub si suona: un duo chitarra, voce e batteria, stipato in un metro quadro, sta producendo musica modesta per le orecchie ubriache degli avventori in visibilio. Una comitiva di americane sui venticinque ha preso possesso di un’ala del locale, con la riservatezza e il pudore della prima Britney Spears, quella dei video in minigonna scozzese. Al ritmo di celebri hit folk-pop, le più timide si sforzano di coprire qualche fetta di carne, le più audaci si dimenano in reggiseno strofinandosi l’un l’altra. Intorno a loro ronzano impazziti i calabroni maschi, senza mai affondare il pungiglione. Vivono troppo a nord.
Peccato che non abbia tempo, perché è forte la tentazione di liberare il vecchio maschio Alfa latino dalle catene della sciatica e impartire ai ragazzotti pallidi di Amburgo un’istruttiva lezione su come si prende al lazo una puledra selvaggia di Dallas. Per qualche minuto assisto impotente allo spreco di tanto testosterone, poi finisco la birra e saluto il vivace ambientino. Uscendo, sulla schiena sento gli occhi acuminati delle puledre e intercetto il loro appello muto: non ci abbandonare qui, sei vecchio ma abbiamo tanto bisogno di essere domate!
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