Le due Skellig ora ne formano una, con le rispettive guglie di sasso che si fondono e ne fanno un duomo conficcato in mezzo all’Atlantico: dalla St. Finyan’s Bay le isole le vedo così, lontane, sovrapposte, dopo averne ammirata una dal basso, Little Skellig, e calpestata l’altra, Skellig Michael, la più grande, in una mattina di incredibile sole irlandese: come i monaci cristiani di mille anni fa – mille veri, non per iperbole – i monaci che salivano e scendevano e risalivano i seicento gradini scavati nella roccia, dalla base dell’isola fino alla vetta, dove li aspettavano celle coniche simili a trulli ma piccolissime, che entrarci è già difficile, figurati viverci.

Sul costone di Skellig Michael, centosettanta metri di brivido verticale, non bisogna distrarsi perché basta un piede in fallo e si precipita in mare. Si avanza tra forme aguzze di pietra tappezzate d’erba e fiori, strapiombi, spianate verdi e gabbiani, gabbiani dappertutto, il loro grido a mescolarsi con l’incessante schiaffo delle onde. I gradini arrampicano dritti poi svoltano, corrono in orizzontale e ripuntano la cima raggiungendo le celle e le croci dei monaci, che quassù la vita – non si sa come – l’hanno passata, ma l’hanno anche persa; in pace, credo, la pace inevitabile di un meteorite deserto piantato nell’oceano a dodici chilometri dalla costa del Kerry.

 

Pace che proveremo ad assorbire io e i compagni di scalata nelle due ore e mezza concesseci dai battelli in attesa davanti all’unico approdo, centosettanta metri più sotto. La mia comitiva, da compatta che era in barca, sull’isola si è sgranata: non vedo più la famigliola francese il cui patriarca – Jean o François o Mathieu – per immortalare da plurime angolazioni ogni smorfia delle tre figlie, a bordo ha frapposto ingombranti parti del corpo tra me e qualsiasi scorcio fotografabile. Non vedo più la giovane coppia britannica, riconoscibile dal colorito cereo, che soltanto a terra ho capito essere coppia, giacché sul battello i due si sono bellamente ignorati, tanto da indurmi, credendola sola, a offrire il mio aiuto latino alla ragazza – l’espressione tipica di chi stava per vomitare. Non vedo più l’altro nucleo francese – curioso quanti francesi visitino l’Irlanda – padre madre e figlio trentenne di Rouen, gentili a darmi corda durante la navigazione. La madre era letteralmente rapita dal figlio, lo fissava come un’innamorata, bel ragazzo e brillante, indubbiamente. Parlandoci, con la scusa di fotografarci a vicenda, è uscito che non lo vedeva da sei mesi, il pargolo lavorando a Dublino; eppure c’era qualcosa di più di un semplice reincontrarsi nella sua infatuazione estatica, qualcosa di legato a una sorta di sbalordimento ammirato nei confronti del figlio e di se stessa: guarda che capolavoro della natura ho creato! E non vedo più il mio avatar, un Phil Collins con più capelli e centimetri, unico passeggero degli undici a viaggiare in solitaria, come me.

Sono tutti scomparsi tra gli anfratti di Skellig Michael, e dire che non ci sono percorsi alternativi ai seicento gradini. Ma loro sono schizzati subito verso l’alto, io al solito mi sono attardato: monta il cellulare sul bastone per i selfie, spalma la crema sulle porzioni esposte di pelle, soprattutto rimodella il look sulle nuove condizioni psico-climatiche: ligio alle istruzioni terroristiche della compagnia di navigazione, ho ingolfato lo zaino di abbigliamento antartico, e se in mezzo minuto questo bizzarro sole tropicale d’Irlanda svanisce e su di noi si abbatte la tempesta perfetta? Dentro dunque cerata da moto, pile da polenta, k-way, maglia termica e doppie calze, oltre agli scarponcini da trekking, ça va sans dire. Il sole insospettabilmente tenace, in barca del guardaroba ho indossato unicamente il pile – qualche folata di vento fresco, qualche spruzzo d’oceano. Una volta sull’isola, senza più brezza, in un caldo surreale a queste latitudini, ho cambiato calze e scarpe, accorciato a bermuda i pantaloni tecnici, sostituito la maglietta feticcio della maratona di New York con quella termica antisudore. Nel frattempo il mio isolamento dal gruppo si è compiuto – poco male, non la compagnia più incline alla socializzazione.

Attacco i gradini: cammino veloce e raggiungo in fretta altri colonizzatori mentre riprendo l’arrampicata col cellulare. Nello scansarsi, due ragazzi si offrono di farmi una foto in un inglese sospetto: sono italiani infatti, di più, di Canegrate, tre chilometri dalle mie lande padane, e di nome fanno Laura e Andrea, Laura come Mamma, e Andrea… Approfitto delle imprevedibili coincidenze, la foto diventa un video di me che di spalle sculetto gagliardo sullo stretto sentiero scanalato; a rivederlo la sera, apprezzerò mano ferma e pazienza di Andrea, sarà l’omonimia. Parente della mia è anche la loquacità del giovane, che mi costringe a troncare con brusca cordialità la conversazione su quanto più bella dell’Altomilanese sia l’Irlanda – ho due ore e mezza, anzi ormai solo due ore, per perlustrare Skellig Michael, non posso perderne mezza ad ascoltare certe ovvietà.

La conquista della cima è meravigliosa: pinnacoli, cunicoli, dirupi improvvisi e acqua ovunque intorno, fino ai trulli dei monaci, la cui costruzione è descritta da un paio di guide locali in una lingua troppo ostica. Provo a seguirne il racconto ma l’umiliazione di non capirlo mi trasloca dai rifugi di pietra allo spiazzo verde più sopra, dove mangio e contemplo, l’oceano, la costa di Kerry e Dingle, Little Skellig.

Little Skellig è la sorellina non visitabile di Skellig Michael: sequestrata da migliaia di berte, sule e pulcinella di mare, che la fanno apparire come innevata, l’abbiamo circumnavigata prima di approdare sull’isola gemella, in uno stridio d’uccello folle, tanto potente da sovrastare il motore della barca. Ora, dall’alto, le tre punte ben visibili, Little Skellig aderisce perfettamente all’immagine prestata a uno o due film della saga di Guerre Stellari – non a caso l’isolotto compare sulle felpe ricordo dell’escursione sotto la scritta Star Wars o accoppiato all’elmo sinistro di Darth Vader (e chissà quanto mi stanno invidiando adesso i fanatici di Chewbecca e Yoda…).

L’effetto ipnotico del panorama mi appisola, al risveglio scopro sgomento di avere giusto un quarto d’ora per presentarmi puntuale al rendez-vous col battello, cosa che naturalmente non avviene – per una manciata di minuti, sei per l’esattezza. Sono le 13.06 e al molo di Skellig Michael la barchetta della Skellig Experience non c’è, e mancano pure gli altri undici passeggeri: tutti in ritardo? Nient’affatto, tutti in anticipo e già a bordo, in rada, a cento metri da me. Il battello li ha caricati e ha lasciato spazio ad altri battelli, restando in attesa del solito italiano inaffidabile e arrogante. Il quale italiano, per una frazione di secondo, teme di essere stato abbandonato sull’isola, in balia delle intemperie, prossimo pasto dei pulcinella di mare. Poi intravede un paio di braccia normanne levarsi da un natante in mezzo al mare – le braccia della madre invaghita del figlio – e capisce.

Una volta raccattato dal battello, le scuse poliglotte dell’italiano – in francese, inglese, azzarderebbe il Gaelico se lo sapesse – non bastano a evitargli la paternale inviperita del comandante: la puntualità è fondamentale, c’è un flusso continuo di barche e il molo è uno soltanto, per tacere dello scarso rispetto verso chi è arrivato in orario, cioè tutti gli altri. Lo faccio sfogare, il comandante, restando in silenzio, pronto a nascondermi dietro la lavagna, sotto gli sguardi tra il divertito e il sussiegoso dei simpatici compagni d’avventura. Peccato però, all’andata col comandante s’era creata una certa intesa, sì mi aveva proibito di fare foto a lui e al timoniere – e da lì avrei dovuto intuirne la rigidità – ma poi s’era chiacchierato, mi aveva perfino confessato che nei tre giorni precedenti non erano partiti causa maltempo: ora mi sorveglia come se fossi un cacciatore di delfini.

A proposito, sempre all’andata li abbiamo visti, i delfini, in realtà era uno solo ma si è esibito per noi più volte, volando fuori dall’acqua come un aquilone, così vicino da scorgerne gli occhi buoni. È per avvistarne altri o qualche balenottera smarrita – e anche un po’ per autopunirmi – che passo tutto il viaggio di ritorno inchiodato al sedile, intabarrato nel pile, immerso in un traslucido vuoto azzurro, con in testa l’ossessione di una domanda: ma come dev’essere, trasferirsi a vita in uno dei trulli di Skellig Michael?