Meraviglie e nefandezze dei tre giorni trascorsi ad Agrigento. Tra le prime, il b&b Alta Marea di Porto Empedocle, hotel a quattro stelle sotto le mentite spoglie di un banale appartamento: camera ariosa, bagno moderno impreziosito dalle antiche piastrelle dipinte a mano, balconcino in ferro battuto con vista sul corso, asciugamani cambiati tutti i pomeriggi, una pulizia che neanche nelle cliniche private. Ma la sorpresa è l’oste, Calogero. Con discreta e garbata premura, ogni mattina ci regala un cannolo fritto e una brioche alla crema di pistacchio che straborda tanto è piena; poi ci indirizza alle spiagge più appartate, ai ristoranti più autentici, ai monumenti più spettacolari. Calogero non è solo attento e gentile, quasi galante, è anche innamorato della sua terra; e ce la racconta, senza parlarsi addosso, rielaborandola su ciò che vogliamo vedere, non sbagliando un colpo. Oggi è martedì e il nostro mesiversario: Calogero intuisce la voglia di una fuga speciale e ci spedisce alla Scala dei Turchi; era comunque in programma, ma senza le sue dritte avremmo sbagliato orario e tragitto, annodandoci in code e ressa. Invece così, in dieci minuti, dalla provinciale sovrastante atterriamo sull’anticamera sabbiosa di questa formazione aliena, raggiungibile solo via mare.

Scala dei Turchi

La Scala dei Turchi è finta, è evidente, l’hanno costruita quelli dell’Aquafan a immagine e somiglianza delle loro circensi attrazioni da riviera; in cartapesta, come i carri di Viareggio. Per calpestarla, dobbiamo guadare centocinquanta iarde di Mediterraneo paludoso, zavorrati dall’invidia per i temerari illegali che scelgono il sentierino asciutto su terraferma, ufficialmente interdetto per pericolo di frana. Sì, perché la cartapesta in realtà è calcare, friabilissimo, consolidato in marna bianca che sale per cinquanta metri, staziona in cielo, poi precipita e s’immerge nell’acqua, scheggia di pietra maestosa e fragile. Al termine della traversata nel fango, un ponticello ci scarica sulla Scala e perdiamo la vista: il luccicore della parete riflette il sole che non si riesce a tenere gli occhi aperti. A tentoni, strizzando le palpebre, raggiungiamo il primo livello, a circa dieci metri verticali dal mare; è il livello del passaggio: terrestri storditi e mezzi ciechi vagano sul candore di questo meteorite scagliforme, precipitato da una galassia dispettosa nella Sicilia sud-occidentale. Per evitare collisioni, ci issiamo al secondo livello, il livello della sosta, quattro metri sopra. E lì restiamo, a ubriacarci dell’azzurro e del bianco, resistendo alle tentazioni del terzo livello, quello dell’avventura, dieci metri più su, la cui conquista lasciamo ai branchi d’improbabili arrampicatori in infradito, a caccia della madre di tutte le foto da appendere su istagràm.

Scala dei Turchi

Nelle immagini in rete, la Scala dei Turchi campeggia sempre solitaria e dominante, ma, alla sua destra, si estende una baia di seicento metri recintata da falesie che, seppur alte e bianche e carnose, rischiano di sfigurare al suo cospetto. Non sorprende che la baia sia semideserta, laddove primo e secondo livello del meteorite continuano ad accogliere stormi di terrestri, ormai troppi e troppo chiassosi, tanto da obbligarci ad abbandonare l’incantevole postazione, dopo esserci impressi sugli occhi le ultime sfumature di roccia lattea. Rinculiamo in discesa verso il ponticello, con lo stupore beato dell’entomologo che vede venirgli incontro un formicaio, poi violiamo il sentiero vietato per frana – tanto lo stanno facendo tutti – e recuperiamo la 500 L di Sicily by Car.

Siamo pronti per la seconda dritta odierna di Calogero: «Andate a Lido Rossello, quello che si vede dalla Scala dei Turchi, alla fine della baia; parcheggiate, entrate nella spiaggia attrezzata, poi seguite la costa a sinistra; a un certo punto c’è un cartello di divieto di accesso per frane, non vi preoccupate, si può andare; percorrete un cinquanta metri tra scogli e mare e vi ritrovate nella baia delle falesie dove non c’è nessuno, perché tutti si fermano al cartello di divieto d’accesso». Chissà come mai, Calogero. Sarà mica perché le falesie franano?

Baia delle Falesie

Ma la baia è irrinunciabile, ora che la Scala non ha un piolo libero. Seguiamo alla lettera il percorso dell’oste fino al cartello, che oltrepassiamo incuranti dei cumuli di pietre ai piedi della parete, di certo accatastati a bella posta da chi ha redatto il divieto, giusto per creare un po’ di pathos. Individuata la piazzola perfetta, ci accampiamo sotto l’ombrellone arcobaleno di Calogero, unico riparo contro la palla maligna che arde in cielo e infiamma la costa. C’è poca gente, praticamente nessuno al confronto dei trilioni di insetti zigzaganti sul meteorite, e lo spettacolo è grandioso. Mentre Cristiana si getta in mare, io rimango protetto all’ombra, tra un panino al formaggio nero di Sicilia e le pagine di Franzen, finché il caldo subsahariano, che trapassa il nylon sottile dell’ombrellone, mi costringe ad uscire allo scoperto per cercare sollievo in acqua. Il Mediterraneo dista solo cinque metri di granelli arroventati, ma nel tragitto potrei sciogliermi come un pupazzo di neve a Cuba.

Lido Rossello

Non so come, raggiungo integro la riva e, per un po’, friggo sul bagnasciuga, accarezzato dalle onde; poi ripristino l’abituale microclima interno, riattraverso il deserto e riguadagno l’ombra, accasciandomi sulla sediolina turchese saccheggiata insieme al formaggio nero di Sicilia all’emporio di Lido Rossello. Poco dopo mi addormento e sprofondo in un sogno incongruo, di cui ricordo solo il tentativo di imbarcare in aereo la Scala dei Turchi, per conficcarla nel parcheggio del lidl, di fronte al mio balcone, a Legnano.