Non ne ho certezza, ma credo sia la mia prima volta a Rimini. Per la prima volta attraverso la liturgia di Rivazzurra-Marebello-Bellariva, non in quest’ordine. Luoghi mitologici che non pensavo esistessero davvero, appendici della Rimini felliniana protesa verso i peccati di Riccione. Fellini è il padrone della città, gli hanno dedicato decine di stradine al mare ispirate ai suoi film: via Otto e Mezzo, via E la nave va e così via. Un bel tributo pur nella bizzarria romagnola. Poco importa che i vicoli del cinema siano assediati da centinaia di alberghetti fronte Adriatico, per lo più squallidi e caricaturali – ho proprio letto Hotel Kristal e Albergo Bellavista – il fascino circense di Rimini rimane intatto.

Alloggio in uno di questi carrozzoni, forse il più malconcio, tutto è scartocciato, logoro e non bastano la gentilezza sincera e la confidenza contagiosa di Ludovica, l’ostessa, per conferirgli una dignità che non avrà mai. Ludovica è assorbita da un suo universo parallelo molto tranquillo, cadesse un meteorite, si sposterebbe di un paio di centimetri. Tanta imperturbabilità non le impedisce di accondiscendere ad ogni richiesta: serve un phon? Glielo faccio avere subito; sono scettico sul lasciare lo scooter in strada di notte? Non si preoccupi, lo mettiamo sullo scivolo interno. Pare quasi vergognarsi quando dice che posso avere anche l’aria condizionata per otto euro extra. Da tutto questo prodigarsi emerge la sensazione che sia parecchio sola, Ludovica, alle prese con quell’età delicata in cui la solitudine non è più una scelta.

Federico Fellini

L’alberghetto è pieno, gli ospiti attendono il Jova Beach Party, il concertone in spiaggia del Lorenzo nazionale. Io, manco a dirlo, faccio eccezione, Rimini è soltanto una tappa verso l’Abruzzo. Però un’oretta a Miramare, fermata 30 del bus come segnala Ludovica, potrei spenderla, quantomeno per non sentirmi lo snob purista che Jovanotti no, mai nella vita; che poi l’ho pure visto, ere fa, suonare con Pino ed Eros a Monza: gran live, anche la sua parte.

A Miramare Rimini smette i panni dell’eterno luna park e indossa il vestito buono della località balneare media italica: camminamento pedonale, corsia per le bici, locali e chioschi sulla sabbia. Da stamattina ho voglia di fritto misto e provo a soddisfarla in un ristorante senza pretese e tovaglioli. Lorenzo ha già cominciato e, mentre intrattiene le masse, penso che in quarantamila hanno sborsato sessanta euro per accatastarsi l’uno sull’altro, quando potevano sedersi al ristorante senza pretese, a cento metri dal palco, e godersi la musica gratis, col frittino davanti.

 

Io penso positivo perché son vivo, perché son vivo.

I gamberetti sono piccoli ma saporiti, i pescetti hanno un po’ di spine.

Questo è l’ombelico del mondo e noi stiamo già ballando.

Jova non lo vedo, eppure lo vedo che salta, aizza, scimmiesco.

Bella, come una mattina d’acqua cristallina.

 

Grazie al fritto di proporzioni bibliche ascolto mezzo concerto, poi immortalo il retro del palco e, malgrado siano solo le dieci e mezza, rientro alla base: oggi ho guadato una dozzina di affluenti di destra del Po e schiena, collo e tricipiti si lamentano delle troppe curve in val Nure e dei 250 km tra A1 e A14. Sono gli effetti collaterali dei viaggi in scooter, si esplora ogni piega della strada, si risale ogni collina e, alla fine, ci si mette sempre il doppio del previsto, stremando muscoli e nervi.

In albergo Ludovica sta parlando con un vecchio inglese che sorseggia una Peroni da 66 come fosse un Armagnac. Parlare non è corretto, in realtà usa il traduttore di Google, con una perizia insospettabile: quando il vecchio vuole comunicare, Ludovica gli piazza il cellulare di fronte alla bocca e clicca l’icona del microfono. Lui parla, la vocina ammaestrata di Google traduce in un italiano approssimativo, lei risponde commutando la funzione in inglese e Google ritraduce. Così, per venti minuti. Sono rapito dall’ingegno dell’uomo e immalinconito dal suo terrore del silenzio. Dopo aver riparato lo scooter dietro al cancello scrostato dell’albergo, prima di coricarmi faccio in tempo a vedere il vecchio inglese uscire dalla stanzetta che Ludovica chiama hall, rientrare tre minuti dopo, risedersi al bancone, ricevere da Ludovica un’altra Peroni e ricominciare una straziante conversazione a tre: lui, lei e Google traduttore.

Il mattino dopo mi sveglio ingolosito dall’odore di buono che risale le scale. Faccio una doccia alla “brasiliana” – senza base, senza tenda, un getto d’acqua scroscia dal soffitto e scola via da una grata nel pavimento: non è neanche scomodo se si ha l’accortezza di vuotare il bagno di ogni cosa bagnabile. Dalla camera-loculo esco sul pianerottolo dove incrocio il vecchio inglese, che non ricambia il saluto. Seguendo il profumo scendo al bar, nella cui desolazione risalta un tavolino malfermo. Sopra vi campeggiano: fette biscottate confezionate, marmellatine monodose, panini in polietilene, brioches decongelate – responsabili del profumo fedifrago – una serie di vassoietti bianchi da riempire di leccornie e un cartello nazista: “Gli ospiti hanno diritto a una porzione liquida e una porzione solida”.

«No, è perché si prendono tutte le brioches e se le portano al mare senza lasciare nulla agli altri», mi spiega Ludovica. Poi abbozza un occhiolino e mi invita a servirmi liberamente di tanto ben di Dio, perché si vede che sono uno a posto e non ne approfitterò. Mentre mi chiedo se apparirle uno a posto mi lusinghi o mi deprima, col suo sguardo sulla nuca prelevo un panino, due marmellate e un burro, fingendo per buona educazione – sono uno a posto io – di rinunciare alle altre prelibatezze, che non mangerei neanche sotto tortura. Ludovica sorride compiaciuta e mi accompagna nel giardinetto-aiuola dell’albergo dove, senz’alcun nesso logico, mi racconta di un tizio che la sta stolcherando: «Mi manda le foto sul cellulare, ce n’è una anche con la faccia ma il resto, beh ha capito, no?». Ho capito che lo stalker è messo maluccio se molesta una donna sovrappeso di una trentina di chili, priva di caviglie, grigiastra e con un fiato consistente.

«Ma non l’ha riconosciuto dal viso?» le chiedo. «E no!» risponde, «però dev’essere uno che raccoglie l’immondizia perché i pantaloni, quando ce li ha, sono della nettezza urbana, quelli arancioni, ha capito?».

Si attiva il Poirot che sonnecchia in me: sedendomi al tavolo in giardino ho intravisto un tizio che svuotava i bidoni della stamberga di fianco.

«Ludovica, perché non chiede all’omino lì se lo conosce, il tipo delle foto?»

Lei mi sorprende e aggancia felina il potenziale delatore del maniaco. Due minuti dopo mi riferisce, delusa, che all’omino quella faccia non dice niente e che le altre foto non gliele ha fatte vedere, tanto si vede solo una cosa. Poi mi mostra la sola immagine mostrabile: il maniaco sembra Elio, quasi pelato, occhi tondi e sopracciglia inverosimili.

«Ma ha provato a denunciarlo?»

«Ma no, è innocuo, le foto le cancello, a parte questa col viso le altre non mi interessano. Si stancherà prima o poi.»

Ludovica si perde per qualche secondo nel suo universo parallelo, lasciandomi gustare la confettura al lampone tonnato e il burro in crosta di pane raffermo. Poi si ridesta e, nel congedarsi, mi infilza con uno sguardo obliquo: «Mi raccomando, lei non ci provi mica a mandarmi certe foto…».