Certi luoghi bisogna lasciarli immacolati. Devono depositarsi nella memoria e assurgere a mito, senza mai incontrare di nuovo la realtà, che tutto corrode.

È un’ora e mezza che scivolo sull’Autosole verso Bologna. Improvvisando una sosta per scollare il culo dalla sella e pranzare, incrocio il cartello Fidenza/Salsomaggiore Terme e m’infilo nello svincolo, eccitato, a Salsomaggiore sono transitato parecchie volte, con Mamma e nonna Licia.

Da quando ho quattro anni – quasi cinquanta, quindi – convivo con un progressivo e irreversibile deterioramento dei timpani, aggrediti, così vuole la narrazione familiare, da una feroce folata di vento all’aeroporto di Malpensa nel 1974 e mai più rialzatisi dal tappeto. Quel primo, violento, trauma, unito a una misteriosa conformazione delle tube di Eustachio, ha fatto sì che, da bambino, a ogni raffreddore, il muco snobbasse l’uscita più naturale, il naso, e si addossasse alle fragili membrane dell’orecchio, pulsando, spingendo, fino a bucarle e insozzare il cuscino di giallo senape.

Sono in fuga dal cratere della A1, la provinciale 12 circumnaviga i balocchi del Fidenza Village, si mescola per qualche chilometro alla Via Emilia, poi si getta nella provinciale 359R, ariosa, verde, gli Appennini di fronte. Scorrono i cartelli blu dei paesi intorno e m’incuriosisce l’esistenza di una Salso “minore”, chissà quali arcaiche lacune hanno causato la subalternità rispetto alla sorella più grande e famosa.

Una volta constatato che non si trattava di canoniche infezioni infantili, perché troppo frequenti, troppo dolorose, troppo invasive, è partito il circo di diagnosi, terapie e incantesimi per guarirmi dall’otite cronica perforante. Un otorino, tale dottor Clerici, ha proposto l’intervento più drastico, una smagliante timpanoplastica; avevo dodici anni e Mamma confidava ancora in un miracolo, che l’irrobustimento fisico dell’adolescenza puntellasse quei veli traforati, filtri superflui tra sonorità esterne e nervo acustico: niente timpani artificiali, cerchiamo di non sudare e vedrai che tutto si risolverà crescendo.

Dieci minuti di campagna e Salsomaggiore si rivela. Agli occhi del bambino era Gardaland, di fronte ora ho un vialone di compassati caffè all’aperto in finto vimini che convergono alle terme del Berzieri, l’attrazione cittadina. Non c’è in giro un’anima, luglio non è stagione di fanghi e l’una non è orario di passeggio. Lego il Beverly e mi godo il centro in solitaria.

Caffè Rigoletto

Non passava inverno senza perforazioni, quasi sempre a sinistra, in sintonia col mio piede sensibile. Ai primi freddi, mi si otturava il naso; il catarro, come detto, non spurgava dalle narici, prima fluttuava a tribordo rimbalzando sul timpano destro, poi, dopo un paio di notti a martellare un dolore compresso e insonne, virava deciso a babordo e, finalmente, abbatteva la velleitaria barriera del timpano sinistro.

Le terme Berzieri, che dominano l’omonima piazza di Salsomaggiore, sono sontuose, centenarie, insieme massicce e leggere. A pochi metri dalle loro architetture svolazzanti, sonnecchia il Caffè Rigoletto; ho bisogno di una piadina e mi siedo al tavolino più panoramico, le meraviglie art decò delle terme tutte davanti. Dopo aver servito un manipolo di ciclisti anglo-israeliani – lo capisco dalla lingua e dalla scritta Tel Aviv Team sulle magliette traspiranti – una ragazza mascherata prende la mia ordinazione: hanno la piadina, facciamola speck e brie.

È nel periodo di passaggio dalla voce bianca ai brufoli che Mamma mi ha affidato alle acque taumaturgiche di Salsomaggiore, soggiorni di una settimana, ai primi di settembre, prima che iniziasse la scuola per entrambi. Da L’Aquila ci raggiungeva in pullman nonna Licia, prontissima per fanghi e socialità. Alle terme mi torturavano per lo più con l’aerosol, in tutto uguale all’indigesta attrezzatura casalinga: macchinetta motorizzata più mascherina più alambicco biforcuto di vetro, dove ribolliva il liquido delle fiale, dall’odore di zolfo, che risaliva nelle narici sotto forma di vapore. La differenza dei trattamenti di Salsomaggiore stava nelle virtù dei fluidi locali, ricchi di sali minerali e intrugli da druidi precristiani, attinti non dalle fiale ma dalle pareti, cui erano collegate le mascherine.

Approfitto della gentilezza obbligata della cameriera del Rigoletto per raccogliere informazioni sulla città. Stefania, questo il nome, può raccontarmi degli ultimi dieci anni, prima abitava a Parma e comunque era troppo piccola: il Berzieri, da terme classiche, si è trasformato in spa, un centro benessere, specifica lei – deve aver colto la mia perplessità nel considerarlo una società per azioni. Recentemente l’hanno riaperto, è una fortuna, perché col Covid a Salso non ci veniva più nessuno, ché già gli hanno tolto Miss Italia. È vero! Qui girava la giostra della più bella del reame: Mirigliani, con quella faccia ambigua, poi la figlia, ambigua pure lei. L’hanno abolito, Miss Italia, uno dei tanti danni del femminismo sessualmente corretto, intollerante verso quell’esibizione del corpo della donna – innocua, casta, popolare – però zitto ogni volta che pubblicità, tivvù, perfino la politica, speculano su tette e culi per vendere uno spazzolino o un ministero.

Piazza Berzieri

Malgrado l’ottima reputazione, non avvertivo particolari benefici dopo le sessioni di aerosol termale: non mi si stappava l’orecchio, non aumentavano le capacità uditive e continuavo a sentire come dentro a un sommergibile, producendo bizzarri rumori col naso, una sorta di decompressione compulsiva del timpano, allo scopo di scollarlo da martello, incudine e staffa, gli ossicini interni della trasmissione del suono cui era costantemente avviluppato. Tuttavia, era tale l’enfasi con cui l’otorino di turno esaltava le proprietà terapeutiche della cittadina, e così contenta Nonna di giocare a canasta con le altre ospiti dell’albergo, che la tappa a Salsomaggiore divenne appuntamento stagionale, almeno fino alle ribellioni postpuberali.

Mentre Stefania si occupa della piadina, tento di rievocare l’immagine di piazza Berzieri, ma dalle nebbie degli anni Ottanta emerge solo l’ectoplasma della fontana che la introduce, nella memoria parecchio più maestosa di quanto sia in realtà. Ricordo bene, quello sì, il nome dell’albergo dove alloggiavamo, il Romagnosi. Stefania ritorna, mi porge la piadina e mi ci indirizza, l’hotel è lì dietro, appena passata la croce della farmacia.

Un anno l’ennesimo otorino azzardò una variazione sul tema, le insufflazioni tubariche endotimpaniche. Nome complesso dal meccanismo semplice: mi sparavano una revolverata d’aria nel naso, l’aria esondava nelle tube di Eustachio fino ad alluvionare il timpano, a ogni ondata sul punto di implodere e riversarsi in mille pezzi sul pavimento. Era devastante, insopportabile, alla terza applicazione mi sono strappato il cavo dal naso, minacciando di morte chiunque cercasse di reinserirlo. Una sofferenza simile l’ho provata soltanto quando, dopo una collisione giovanile contro il parabrezza della Panda, mi hanno attaccato alla testa decine di ventose per individuare eventuali danni cerebrali: al primo ronzio elettrico dell’encefalogramma, il cranio si è come gonfiato e ho supplicato il neurologo di interrompere l’esame.

Albergo Romagnosi

Al Romagnosi collego la mia prima esperienza erotica, ancorché esclusivamente contemplativa e ingigantita nella portata dal binocolo nostalgico dell’età. Vedo un monello di nove anni, sfuggito al guinzaglio di madre e nonna, che si aggira per i piani dell’albergo. Lo vedo guardarsi intorno circospetto, puntare la porta di una camera, facciamo la 135, e abbassarsi all’altezza del buco della serratura. Non ci sono ancora tessere da passare in una fessura, le camere si aprono con lunghe chiavi di ferro da infilare nello stesso buco dove lui ora sta ficcando lo sguardo. La visuale è ridotta ma sufficiente a inquadrare un lavabo e, sopra, un paio di grosse mammelle, nude, rosa, isolate dal resto del corpo, che non si vede. Pendono sul lavabo, le mammelle, e oscillano, vive. Ora che le ha stanate, il monello non sa che farsene, resta però appiccicato al buco, un qualche senso devono pur averlo, e poi c’è da capire perché sente caldo alla patta dei pantaloni.

Penso di aver spiato molte stanze da bambino, eppure mai epifania fu più nitida e consistente, forse le altre serrature hanno deluso le aspettative, forse la visione dal buco del Romagnosi era semplicemente la prima, l’imprinting. È tempo di riviverla, raccatto il casco, saluto i ricci di Stefania e raggiungo l’hotel. Come piazza Berzieri, quel caseggiato salmone dall’insegna triste non mi trasmette alcuna vibrazione, sicché la smania di entrare e arrampicarmi fino alla camera 135 cede il posto all’urgenza di mantenere intatto il ricordo delle mammelle che fremono davanti ai miei occhi. Scatto una foto per inerzia, poi mi allontano lentamente dal Romagnosi, perché certi luoghi bisogna lasciarli immacolati, devono depositarsi nella memoria e assurgere a mito, senza mai incontrare di nuovo la realtà, che tutto corrode.