Ferragosto in Sicilia e mi sveglio terrorizzato: nell’incubo fradicio di due minuti fa, cinque generazioni di famiglie autoctone si riversavano dai cubi non finiti dove vivevano alle spiagge, tutte le spiagge, dovunque potessero concepire una spiaggia, foss’anche un sito nucleare con una striscia di fango e uno specchio d’acqua. Portavano con sé carriolate di cibo, come traslocassero in un rifugio antiatomico per un periodo imprecisato. Montavano tende gigantesche, cittadelle da far invidia ai Tuareg che occupavano ogni millimetro calpestabile della spiaggia. Gli adulti allestivano il fantastico mondo delle creature gonfiabili così da agevolare l’ingresso in acqua dell’ultima generazione, sirenette sferiche dai nomi ottocenteschi – Gessica, Gennifer, Miscèl – la cui mole sarebbe bastata a esaltare il principio di Archimede, esimio siciliano, mantenendole a galla anche senza l’ausilio delle belve di plastica su cui si adagiavano regali.

Da sveglio, l’incubo si trasforma in emicrania, debole ma insistente e in fase di espansione dalla fronte alle tempie: esclusa la decapitazione, l’unico rimedio è un’aspirina scaduta, scavata fuori dalle segrete del biuticheis. Daniela, l’ostessa del B&B, mi regala un nimesulide, lo metti sotto alla lingua e fa subito effetto, risponde strasicura alla mia timida obiezione circa la necessità di sciogliere la soluzione granulata in un liquido che non avrò in spiaggia. Ignoro la tentazione di intavolare uno sterile dibattito farmacologico perso in partenza, intasco la polverina e ci rifugiamo nella 500 Elle. A dispetto dei suggerimenti di un GPS stordito dall’afa, circumnavigo il centro di Pachino in modo da evitarne il traffico tentacolare; sulla Strada provinciale 19, che risale l’isola dall’appendice più africana, poche auto, l’incubo di una Sicilia in marcia verso il mare non si avvera, forse perché sono le 9, l’alba per i locali. Approfitto della strada sgombra, accelero e dieci minuti più tardi svolto per Vendìcari, la riserva naturale tanto decantata dalla guida Dumont e da ogni siciliano del sud-est.

Depositata la 500 Elle nel solito parcheggio sterrato ufficialmente abusivo, c’incamminiamo su una passerella beolata tra le canne e le dune; la sgambata è breve, gradevole, rispetto all’interminabile percorso accidentato per Calamosche pare di scivolare su un tapirulàn di velluto. In spiaggia sonnecchia una trentina di persone, pianto l’ombrellone verde di Daniela in una calma fittizia, poi rinculo veloce in direzione Pantano di Roveto. A detta dello statistico della riserva, un siculo-arabo dalla pelle amaranto e spessa, la cui occupazione è riportare su un foglio numero e provenienza dei visitatori – 2 Milano, 5 Perugia, 3 Bordò – nonché rivolgere complimenti melliflui ai visitatori di sesso femminile, a detta di tale esemplare mediterraneo in via di estinzione e per questo, forse, rinchiuso in uno sgabbiozzo incandescente di truciolato, nel Pantano di Roveto stazionerebbero i fenicotteri. Lo si raggiunge grazie a un sentiero interno fiancheggiato da cespugli bassi dove – questo lo certifica un cartello – nidificano le tartarughe. Mi ci infilo animato dalla velleitaria curiosità pseudoscientifica del Piero Angela che alberga in me e che, a giudicare dalla desolazione del sentiero e dal flusso crescente di villeggianti lungo la passerella al mare, pare alberghi soltanto in me, malgrado i quarant’anni di divulgazione sulla Rai Radio Televisione Italiana.

Dopo quindici minuti di sabbia, un cancello mi sbarra il passo, ingresso vietato causa allagamento, recita un pezzo di cartone scritto a mano. Il cancello in realtà è socchiuso, qualche naturalista zelante lo ha forzato invitando i posteri a proseguire. L’allagamento, se mai c’è stato, deve risalire a due ere geologiche fa, tanto secca e polverosa si presenta la strada. Mentre attraverso il cancello, sigillo le paratie e, come un sommergibile, m’inabisso in una civiltà altra, priva di esseri umani. Alla mia destra, in uno stagno lontano una settantina di metri, prendono forma decine di minuscole macchie bianche; per accertarne l’identità devo avvicinarmi, il che comporta abbandonare il sentiero, valicare una barriera spinosa di piante grasse, passeggiare sopra una lastra di terra crepata e sormontare una seconda barriera di piante grasse, stavolta più alte. Occorre evocare lo spirito di Angela junior, quell’Alberto figlio di Piero irrimediabilmente privo del carisma del padre ma assai più gagliardo di gamba. Mi servono i suoi muscoli e la sua stolida positività, farebbero comodo anche i suoi fascinosi e telegenici scarponcini beige da escursione, già che, lungimirante, ho scelto di guadare l’Amazzonia di Vendicari con le infradito da cocktail prese a Fuerteventura.

La prima barriera di piante si rivela innocua, i guai iniziano sulla lastra di terra, che dal sentiero pareva dura mentre risulta molliccia e scivolosa. I miei ottanta chili, anche ottantadue da quando mangio siciliano, vi sprofondano impotenti e le infradito sciccose scompaiono nelle viscere della palude. Con la poltiglia alle caviglie, sollevo il piede destro insieme a una badilata di fango, poi il piede sinistro e un’altra badilata di fango, fino a coprire i venti metri che mi separano dalla seconda barriera di piante. Drastico cambio di superficie, ora di fronte ho un groviglio di rami, rovi, tentacoli verde pisello di lunghezza variabile e irti di aculei cattivi, sotto i quali probabilmente si nasconde una seconda, letale, palude. Ma gli Angela, padre e figlio, si sono impadroniti di me e procedo. L’altopiano è aguzzo, fitto, tuttavia calpestabile come un tappeto; si abbassa a ogni falcata ma non cede e spiana le punte verso l’esterno allontanandole dai miei teneri segmenti di pelle scoperta.

Scollinato l’ultimo dislivello, atterro sulla riva del Pantano di Roveto. Dalla monocromia che mi si srotola davanti – terriccio grigiastro, piccoli scogli grigiastri e, poco oltre, acqua grigiastra e torbida – spuntano centinaia di piume bianco-rosa, una sorprendente, effimera, surreale nevicata agostana. I sensi si dilatano e, nell’atmosfera vischiosa, un odore crudo e fragrante di guano mi risveglia le narici. Loro, i fenicotteri, i legittimi proprietari delle piume, mi hanno sentito arrivare e si sono assiepati in mezzo allo stagno. Così distanti li si apprezza meglio perché, ammettiamolo, da vicino non sono propriamente belli, quel becco enorme e ricurvo, quella sproporzione tra le zampe lunghissime e il corpo raggomitolato, quegli occhi tondi un po’ malvagi. È l’eleganza del passo a essere unica, l’eleganza delle ballerine classiche quando lanciano le gambe e di loro ammiri la coordinazione naturale, perfetta, senza essere distratto dai bicipiti mascolini, dalle ossa sporgenti del costato, che dalla ventesima fila di platea non vedi. È la leggerezza del volo quando, velocissimi, i fenicotteri si liberano della melma e, in coppia, decollano dal pelo del pantano come enormi aquiloni, scoprendo finalmente il fucsia e il nero delle ali. Ogni tanto una flottiglia plana su di me da chissà dove, prima l’ombra sull’acqua, poi le pance bianche che mi sorvolano.

Dopo mezz’ora di contemplazione, entro in modalità ornitologo e provo a decifrare la strana socialità di questi uccelli: per lo più si raggruppano in stormi foltissimi a pochi metri l’uno dall’altro, alcuni però formano cerchie meno numerose – quindici-venti esemplari – dove lo spazio d’azione è maggiore; altri, una minoranza anarchica che m’ispira istintiva simpatia, si appartano in angoli defilati, da soli. È uno schema tripartito poco animale e parecchio umano: massa acritica, lobbies influenti e liberi pensatori emarginati. Durante l’osservazione devo essere rimasto immobile, mimetizzato col grigio della riva, altrimenti non si spiega il progressivo riaddossarsi alle sponde dei fenicotteri, sempre intenti a brucare l’acqua, ma ora decisamente più vicini. Tanto da sentirne il verso, grave e rassicurante, un gracidìo anfibio in cui riecheggiano gli sberleffi dell’anatra e i guaiti della foca.

Sono due ore che ragiono da volatile, tocca riaggregarmi ai miei simili prima che l’elisoccorso da Lucerna venga a raccattarmi mentre tuffo il naso dentro al pantano. Come rientro in spiaggia, mi sale un conato di pentimento e si ridesta l’emicrania: il mare è gonfio di alghe, la battigia di indigeni tatuati, l’aria è satura di creme solari alla papaya e urla di mocciosi. Scomparse le piume bianco-rosa dello stagno, disperso l’aroma vivido di guano appena sfornato, ammutolito il gracchiare ipnotico dei fenicotteri, sostituiti dai gemelli gonfiabili in polivinilcloruro. Mentre ricaccio in gola la nausea e mi sdraio, penso a come sarebbe stata la mia vita se fossi stato adottato in fasce dalla famiglia Angela.