Primo giorno di acclimatamento in terra di Sicilia. Raggiunta Palermo dall’aeroporto, al B&B ci accoglie un uomo di mezza età e mezza statura. Indossa una camicia a fiori, sandali da frate e dice di fare l’avvocato, ipotesi poco plausibile ma confermata dalla targa sulla porta dell’appartamento. La nostra camera affaccia sull’ingresso laterale del Teatro Politeama, un gioiello ibrido tra leggerezza liberty e solidità neoclassica, i contrasti di quest’isola subito svelati. Dalla camera si sale sulla terrazza da cui scrivo, alta come i cavalli napoleonici del teatro: con uno sguardo si abbraccia l’intera piazza sottostante che formicola di vita e tiepida brezza africana. Abbiamo fame, rimando al dopocena il piacere della contemplazione urbana.
Memori del forzato digiuno americano dell’estate scorsa, quest’anno abbiamo impostato la vacanza sul buon cibo e il buon vino. La guida Dumont suggerisce “Il mirto e la rosa” e l’oste-avvocato acconsente. Nell’area pedonale di via Ruggiero Settimo la passeggiata si fa sempre più piacevole via via che ci avviciniamo al ristorante. Un cameriere solerte ci accomoda all’esterno e compare il menu, sul quale cerco e trovo gli spaghetti con le sarde, le panelle, il cannolo: mangiamo tutto senza fretta – non siamo in pausa pranzo a Lambrate. Dopo aver pagato uno scherzo considerata la qualità dei piatti, risaliamo via Ruggiero Settimo tra cento camerieri sfacciati che alle dieci e mezza ci invitano a entrare in altrettanti cento ristoranti.
Sono un ricordo le due ore di ritardo del volo EasyJet Europe, la nuova, efficiente consociata di cui giusto ieri EasyJet tesseva le lodi via mail. Un ricordo l’irrespirabile fragranza dolciastra diffusa dalla pelle rugosa della mia vicina d’aereo (mai che la sorte mi affianchi una giovane bretone che profumi di miele d’acacia). E un ricordo i sei mesi di vita bruciati dal rally dissennato del tassista sulla tratta Punta Raisi-Palermo. Se soltanto dimenticassi anche il dolore improvviso al cartello dello svincolo di Capaci – così innocuo, così osceno – ora camminerei a trenta centimetri da terra verso la mia terrazza di piazza Politeama, come uno juventino che ha appena sognato di comprare Ronaldo.
Caffè Spinnato
Palermo al secondo giorno è già tutta nei miei occhi, nelle mie narici e sulla mia lingua. La colazione qui è un culto da celebrare con devozione e mi adeguo: iris fritta ripiena di ricotta e gocce di cioccolato, succo d’arancia rossa, minicornetti alla crema di pistacchio – e non vi dico cosa campeggia sugli altri tavoli. L’idea vincente sarebbe di trascorrere l’intera mattinata all’Antico Caffè Spinnato, ma ci attende una carrozza in piazza Politeama.
Sono ottanta euri dottore, lo vedi è scritto qui però ti faccio cinquanta, un’ora, poi vedi tu se continuare. L’orecchio innato per i dialetti mi aiuta a decifrare l’offerta di Giovanni il cocchiere, non proprio pronunciata come l’ho scritta. Vada per cinquanta euro, giro nel centro storico e rientro a rimorchio di una cavalla castana. Giovanni ci affida alle cure di Mario, auriga poco più che ventenne, baffetti per dimostrarne trenta, occhio lesto e frusta decisa. Al primo schiocco la cavalla parte, trascinando svogliata la carrozza fino al Teatro Massimo. Mario, che ne sa tante, ci informa che al Massimo si sono esibiti Ficarra e Picone: la guida Dumont parla anche di Caruso e Maria Callas, non sento il bisogno di dirglielo. Un centinaio di metri dopo costeggiamo il Museo Archeologico e il palazzo delle Poste, un enorme cubo di marmaccio imbarazzante per piattezza di linee, la cui molesta austerità offusca la leggiadria tardo-barocca del museo. Mario spiega che trattasi di stile fascista, sta per sfuggirmi un “littorio” ma taccio di nuovo. Mi sorprende però l’erudizione del ragazzo in conflitto col tributo nazional-popolare a Ficarra e Picone, forse pure lui ha appena votato il Ducetto delle Felpe…
L’accordo è questo, se vogliamo visitare qualcosa Mario si ferma e ci aspetta. Così scendiamo a San Domenico ai confini con la Vucciria, la chiesa dei funerali di Falcone e Borsellino, come ci racconta il nostro Virgilio locale. Il saluto a Borsellino in realtà è avvenuto a Santa Maria di Marillac, ma un ventenne cripto-leghista non può sapere tutto. Entrando rivedo il pianto fiero e accorato di Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani caduto nell’attentato a Falcone. E risento le sue parole: io vi perdono ma vi dovete mettere in ginocchio, urla agli assassini del marito, mentre il prete tenta di sottrarle il microfono e censurarne l’audacia. Vorresti visitare Palermo come una qualsiasi altra città, sennonché la mafia irrompe senza preavviso, senza filtri, e ci devi fare i conti.
Cattedrale di Palermo
Come nella spettacolare cattedrale arabo-barocco-normanna, dove giacciono re, arcivescovi, santi e don Puglisi, sparato anch’egli dalle cosche. La chiesa è una parata di monumenti funerari e affreschi, peccato per quelle sedie rosse da congresso sul buco dell’ozono, accostate senza pudore alle eleganti, sobrie panche di legno con annesso inginocchiatoio per mafiosi pentiti.
Prima di infilarci nella cattedrale abbiamo salutato Mario, il quale ci ha chiesto dieci euri in più per nutrire la cavalla. Il ragazzo ha fatto il suo con simpatia mediterranea tuttavia, se fossi stato danese o californiano, non avrei apprezzato il sovrapprezzo-biada; perciò, pur commosso per l’animale, gli ho dato i cinquanta pattuiti e nulla più, rassegnato all’evidenza che una certa reputazione da filibustieri in fondo all’estero ce la meritiamo.
L’amarezza patriottica e l’immalinconicamento per don Puglisi sbiadiscono non appena passiamo di fronte alla bottega Cassaro in corso Vittorio Emanuele: ci si squaderna davanti un’irreale dispensa di ghiottonerie sicule, a saperlo avrei imbarcato sull’aereo un secondo trolley da destinare alla spesa. Non so come eppure resisto alla tentazione di comprare il negozio accontentandomi di una giallissima cedrata artigianale.
Ballarò
A metà circa dell’arteria che taglia in due Palermo si apre Ballarò. È il quartiere-suq della città: in pochi metri cambia tutto, la placida, rettilinea signorilità di corso Vittorio Emanuele diventa angusta e tortuosa decadenza. A darci il benvenuto una tazza di cesso abbandonata in un angolo e un ragazzino che ci piscia dentro. Più ci inoltriamo nel rione più si scuriscono le facce, si allungano i vestiti, si mescolano le lingue. Raggiungiamo il famoso mercato, dove tutto è urlato, ostentato, estremo. Non sono uno che ha paura e di regola sfoggio una compiaciuta benevolenza verso lo straniero, però Cristiana qui non ce la lascerei, forse neanch’io sarei così tranquillo da solo. È che tutto è stretto, ombroso, unto e i motorini sfrecciano a pochi centimetri dalle nostre tasche, e troppi ragazzi che non hanno niente da fare, troppe vocali aspirate e consonanti gutturali.
Certo, le bancarelle del pesce emanano suggestioni e odori potenti, gli ortaggi e i salumi rubano gli occhi, ma brillano anche tante cianfrusaglie di pachistani e bengalesi: si percepisce chiaramente che Ballarò sta perdendo la propria palermitanità, globalizzato e imbastardito come ogni cosa ormai.
Soddisfatta la curiosità antropologica, usciamo dalla casbah su via Maqueda, altro nervo pulsante della città: ritorna la flemma borbonica e lo schiamazzo cosmopolita scema in brusio autoctono. La colazione di Spinnato è digerita da ore e ci spiaggiamo famelici in piazza Bellini. È formidabile la commistione di stili e forme delle sue tre chiese: San Cataldo è araba, quadrata, aliena; Santa Maria dell’Ammiraglio – la “Martorana” – è normanna, con un campanile forato e svolazzante; Santa Caterina delle Donne è tardo-rinascimentale, corposa, severa. In comune hanno l’ocra che le colora e il pavimento antracite della piazza che le unisce. Scegliamo di dividerci una pizza in un ristorante laterale così da prolungare l’incanto e non accasciarci inermi sul sagrato.
Fontana della vergogna
Di fianco a piazza Bellini un’altra rivelazione, piazza Pretoria. Qui l’attrazione è la fontana detta “della vergogna” in ragione delle sue tante statue nude. Le fanno da cornice tre palazzi antichi, il più importante è Palazzo delle Aquile dove siede Leoluca Orlando, sindaco al quinto mandato, praticamente un viceré. A memoria temo di aver votato lui e la sua Rete quando avevo ancora il pannolino, tra poco metterò il pannolone e Orlando è ancora lì: la perfetta rappresentazione del cambiare tutto per non cambiare niente di gattopardesca ispirazione.
Archivio le riflessioni psico-politiche e riprendiamo via Maqueda, destinazione meritato riposo al B&B. Camminando lentamente, senza accorgercene scivoliamo nel gioco di richiami dei Quattro Canti, uno slargo ottagonale ai cui angoli troneggiano statue delle quattro stagioni, sormontate ognuna da statue di viceré spagnoli, a loro volta sormontate da statue di sante: un riuscitissimo azzardo architettonico nel cuore più cuore di Palermo.
Duecento metri dopo termina via Maqueda e con lei l’area pedonale, mestamente interrotta da due blocchi di cemento antiterrorismo che i writers locali hanno addolcito coi loro graffiti colorati. Rabbrividisco all’idea di una Palermo ferita come Barcellona o Nizza dalla follia dell’integralismo islamico e mi sforzo di scacciarne la visione: non voglio contaminare l’aria profumata e vivida di questa città, sorniona, emotiva, bellissima.
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