Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo. Tutte le famiglie hanno uno zio strano, ogni zio strano è strano a modo suo.

Lo zio strano della famiglia Negro si chiama Fabrizio, fratello minore di mio padre. Babbo ne parlava poco, l’immagine con cui amava ricordarlo era un Fabrizio bambino che a Loreo si addormentava nella cuccia del cane, col cane dentro.

Vidi Zio per la prima volta quando, sul finire degli anni Ottanta, volò in Italia dal Canada per un viaggio della memoria. Aveva bisogno di un’auto e gli prestai la Panda Young, che mi ritornò esausta e ammaccata.

Zio Fabrizio si era trasferito in Québec nel 1969, l’anno del mio avvento nel mondo. Lì aveva sposato Micheline Duchesne, una graziosa canadese francofona dagli occhi dolci e le forme generose, conosciuta un paio di anni prima durante una trasferta di lavoro per la sip, l’antenata della Telecom. In Nordamerica Fabrizio divenne “Toni”, e Negro si francesizzò in “Negreau”. All’urgenza di integrarsi nella nuova patria la famiglia d’origine reagì con pose diverse. Nonna Elena, sua madre, interpretò lo storpiamento del cognome come un oltraggio all’adorato marito Giovanni. Mio padre si limitò a sorridere di quell’alterazione onomastica, divertito dall’ennesima manifestazione di originalità del fratello.

Zio Fabrizio si era diplomato ragioniere e, insieme alle valigie, aveva traslocato in Canada anche le modeste competenze, reinventandosi contabile per artigiani e piccoli commercianti. Tra i suoi vari sogni quello americano faticò a realizzarsi: il lavoro portava pochi dollari in cassa e, quando Zio tornava a Roma, non era tanto per nostalgia del Colosseo o voglia di riabbracciare i parenti, quanto per elemosinare denaro da nonna Elena. Lei era sua madre nonché donna generosa: malgrado l’onta sempre viva del cognome offeso, Nonna cedeva ed elargiva. Così Zio sbarcava a Fiumicino, annusava l’aria di casa e ripartiva con decine di milioni di lire nascosti in una specie di pancera intorno alla vita, contanti destinati a saldare debiti e bollette oltreoceano. A sentire Babbo furono le traversie economiche a intossicare la già precaria stima di Micheline verso il marito, fino all’inevitabile separazione.

L’allegra gestione finanziaria di Zio lo allontanò anche dal figlio. Conobbi Philippe che aveva circa otto anni e accompagnava il padre nei luoghi dell’infanzia italiana. Era un bambino chiuso, con gli occhi dolci come la madre. Quando i genitori divorziarono, Philippe seguì Micheline ed eresse una monumentale barriera di incomunicabilità con Fabrizio, sfociata presto nella cessazione definitiva di ogni contatto – tanto definitiva da disertarne il funerale. Alla morte di Zio, nel 2007, temendo che neanche sapesse della morte del padre, io e Babbo provammo a contattarlo, prima tramite i farraginosi agganci canadesi e poi sul web, sotto il cognome della madre. Ma rintracciare un Philippe Duchesne in Québec è come scovare un Mario Rossi in Toscana, sperammo soltanto che in qualche modo gli fosse giunta la notizia.

Ho voluto calarmi nei panni di Philippe, per capirne la scelta innaturale di rinnegare il padre: credo che non sia stato semplice vivere in un prefabbricato di legno scrostato, stecche di sigarette nel frigo, peli di cane dappertutto; con Zio che, quando andava a Montréal per il biliardo, dormiva in macchina per non guidare di notte. Non so se quanto visto la volta che andammo a trovarlo facesse parte anche della sua vita precedente con moglie e figlio, certo è che di fronte a tanta sciatteria mi viene difficile pensare che la famiglia Negreau vivesse in una casa coloniale gremita di maggiordomi e cuochi.

Come quasi tutto nella sua vita, anche la causa del decesso di Fabrizio “Toni” Negro non fu chiara: qualcosa che riguardava la prostata e che lo assediava da tempo. Saperlo morto mi rattristò perché a me quello zio storto ispirava simpatia, penso corrisposta. In quei giorni trovai consolazione nel ricordo vivido di quando ci aveva ospitato a casa sua, a Shawinigan, Québec del sud.

Shawinigan

Era l’agosto del 2005. L’impatto tra mia moglie e la specificità di mio zio rischiò di minare la serenità dell’intera vacanza. Cristiana non ama i cani, non ne ha solo paura, è proprio un senso generale di rifiuto: all’aeroporto di Montréal Fabrizio – Toni, in quei luoghi – venne a prenderci con Kelly, una biondissima femmina di Labrador dal pelo sterminato. Stipati nella station wagon beige dall’indecifrabile anzianità di servizio, da lui ribattezzata “Vagonette”, mi dovetti dividere per un’ora e mezza tra l’entusiasmo del nipote che rivede lo zio dopo secoli e la dedizione del marito che ogni trenta secondi rassicura la moglie sulla docilità di un grosso animale appollaiato sulle sue cosce, in mezzo a materassi ripiegati, frigobar e stecche da biliardo.

Se si andava oltre l’accento alla Clouseau e qualche intrusione del francese, dopo quarant’anni di Québec Toni parlava un italiano ancora fluente. Fisicamente pareva in forma: asciutto come mio nonno, non alto ma longilineo, al contrario del fratello – mio padre – da lui affettuosamente definito “tarchiatello” in quanto erede della struttura robusta di nonna Elena.

Consumati gli 85 km che la separavano da Montréal alla stratosferica media di 30 miglia all’ora – Zio rispettava alla lettera i limiti nordamericani – Shawinigan ci accolse in tutta la sua canadesità: strade grasse e deserte, accerchiate da boschi infiniti, un edificio ogni ottocento metri e la vita avviluppata a un incrocio chiamato Main Street. I pochi residenti si somigliavano tutti e tutti somigliavano agli alberi: grossi, silenziosi, rivestiti di corteccia dura.

Zio si era prodigato nel rendere amichevole il parallelepipedo di truciolato che chiamava casa. Aveva allestito la nostra suite nuziale nel seminterrato, accatastando in fondo allo stanzone gli oggetti non utili all’ospitalità – praticamente tutti – e dotando di lenzuola pulite il giaciglio alla francese, uno speciale modello canadese che misurava ancor meno di una piazza e mezzo.

Cristiana, uscita incolume ma stremata dalla convivenza coatta con Kelly, riuscì non si sa come a mascherare il disgusto verso quello scantinato umido e buio, rigonfio di ogni avanzo della vita di Toni che non aveva trovato posto al piano superiore. Tuttavia minacciò di ripartire all’istante per Legnano se non le avessi garantito che avremmo dormito lì dentro solo la prima delle due notti in programma a Shawinigan. Mi dispiaceva mortificare Zio e le sue premure sennonché, per quanto convinto che Cristiana non avrebbe lasciato il Canada da sola, era pericoloso iniziare un viaggio di tre settimane immersi in una collosa negatività coniugale. Trovai un pretesto credibile legato al cane e un motel in zona per la seconda notte. Lui mi parve tanto deluso quanto consapevole.

L’agenda dei tre giorni da passare insieme vedeva il suo picco nell’escursione in traghetto a caccia di balene. Tadoussac e i cetacei distavano cinque ore da Shawinigan, che divennero otto per l’ineffabile rigore di Zio alla guida – era capace, se tallonato da orde di truck anonimi e virili in stile Duel, di rallentare e sventolare petulante la manina fuori dal finestrino, forza, superami, io non mi oppongo!

Le balene si fecero desiderare, giusto una mezza dozzina di beluga, i delfini bianchi col muso da pugile, e forse la pinna di una megattera nella foschia dell’orizzonte. Ma restare così a lungo sull’Autoroute 138 ci permise di ammirare tutta la solennità del San Lorenzo che ci scorreva accanto: fiume, poi fiordo, infine oceano.

Su quei 400 km di verde e azzurro io e Zio parlammo fitto e Cristiana si godette il panorama in solitudine – Kelly e la sua placida invadenza erano state provvidenzialmente affidate a un’amica. Nella scalcinata Vagonette colmammo la voragine di troppi anni trascorsi in continenti diversi; tra doverosi aggiornamenti e pettegolezzi familiari filtrò anche qualche confidenza, come quando Toni alluse a una presenza femminile nella sua vita, tale Cristiane Dupont: la combinazione aveva un suono grazioso, però il nome era quello di mia moglie e il cognome uno tra i più diffusi in Québec. Riuscii a rallegrarmi per lui ma il sospetto che Zio si fosse inventato una compagna a uso e consumo del nipote rese artificiosa la pur piacevole intimità che l’indiscrezione aveva creato. Faticavo a figurarmi una donna in grado di gestire la puerile bizzarria di Toni, e lui forse neanche la cercava, forse gli bastava passeggiare nei boschi con Kelly, i grizzly ad attraversargli ogni tanto la strada.

Dai discorsi della Vagonette emerse il suo amore autentico e ricambiato per la natura, in questo simile ai Negro italici: mio padre, se non si fosse legato mani e piedi alla famiglia, avrebbe volentieri fatto il documentarista, una versione tosco-veneta dell’Attenborough televisivo che parla coi fossili e le meduse. Io sono affascinato da canyon, vulcani e deserti, anche se poi mi fermo al primo ristorante, come Brunori.

Dopo accenni evasivi al matrimonio fallito con Micheline Duchesne, zio Toni mi raccontò di un progetto insieme folle ed elettrizzante: rimettere in acqua una vecchia chiatta e raggiungere l’Italia via mare. Aveva comprato la chiatta a un’asta decenni prima e, a suo dire, era ormeggiata a Galveston. Senza dilungarsi sul perché fosse lì e su come intendesse trasportarla dal Texas al Québec, Toni si addentrò nei dettagli più gustosi dell’operazione: avrebbe riverniciato e revisionato la chiatta fino a che non fosse stata in grado di navigare; ci avrebbe caricato la Vagonette; sarebbe salpato dalla costa del Maine, avrebbe fatto tappa «en Groenland, Islande, Ècosse, Irlande, France, Espagne, Portugal, peut-être en Maroc»; avrebbe varcato le colonne d’Ercole, penetrato il Mediterraneo e sarebbe sbarcato trionfalmente ad Anzio, come gli Ammericani nel 1945.

Quella traversata visionaria gli albergò nel cuore per due anni ancora, prima di fondersi con le ceneri del corpo. Da allora, ogni 7 ottobre, quando dedico a Zio un pensiero per il compleanno, penso a come mettere in acqua la sua chiatta – sempre che sia mai esistita, a Galveston, una chiatta di Fabrizio “Toni” Negreau.