La pagina bianca del quaderno mi fissa da venti minuti. Guizza un’idea, ma dalla biblioteca esce un uomo, che draga la ghiaia del parco e si avvicina. Indossa un piumino sbiadito, un cappelletto di pelle marrone con la visiera, una borsa a tracolla e un paio di scarpe da tennis fuori produzione da un trentennio. Abbasso gli occhi prima che l’uomo si accorga della mia attenzione. Troppo tardi, mi si piazza davanti bofonchiando qualcosa e mi regala il suo odore, stantìo, solido, da vecchio: l’odore di un barbone che lotta per non diventarlo.
Le scarpe da tennis mi guardano in silenzio, con tale insistenza da farmi sfuggire l’idea e alzare la testa: è il segnale che l’uomo aspettava. Estrae una scatola di metallo dalla tracolla e inizia a descrivermi le meraviglie della riparazione e taratura di amplificatori elettrici e radio a transistor, un po’ in italiano, un po’ in dialetto. L’uomo parla e il sole morbido del non inverno di oggi ne rischiara il viso: le guance sono ben rasate, gli occhi freschi anche se fuori asse, il naso è lucido. Avrà ottant’anni e gliene chiedo conferma.
«Settantotto, sono del quaranta. Mi chiamo Giancarlo, mio padre si chiamava Carlo, mia mamma Proverbio Pina, puaretta l’è morta durante la guerra di Hitler e Mussolini. Ma mica per le bombe sa, una brutta malattia, l’han porta’ al sanatorio. Te pensa, mancava il pane, figures le medicine, l’è sciopa’ la settimana dopo. Ora sta al cimitero di Cerro col papà e c’è pure il mio fratello, l’è morto tre anni fa. A lui non gli piacevano le donne, gli piacevano i tosi, i ragazzi dai venti ai venticinque. Si viveva insieme, col mio fratello; io non mi sono mai sposato perché lui vuleva no, me piaceva una ragazza ma poi lei se n’è anda’ e allora ho riparato radio e televisori. La prima radio a galena nel cinquantotto, col filo di rame di mezzo millimetro e la cera da candela sulla bobina, perché sa minga la gente che ci vuole la cera per farla liscia! Ora fanno le schede che se rompono subito ma va bene così, le aziende lavorano. Le riparo ancora le radio, sa? E sono ancora bravo, porco diso! Se ha una radio che c’interessa che funziona me la dà, ci mettiamo pure la levetta così ci sente anca il ciddì, o la chitarra, o il microfono, insomma tuc che vuole lei. La prima radio l’ho aggiustata nel cinquantotto, era a galena …»
L’uomo, Giancarlo, fa una pausa e si perde da qualche parte nella testa. Dovrei improvvisare una frase di chiusa e immergermi nella finta scrittura, sperando che abbia esaurito l’enfasi narrativa. Oppure raccattare quaderno e giacchetto, lasciare il legno duro della panchina e salutarlo con garbo. Invece mi complimento per la sua vita da tecnico di radio e televisori e per come porta i suoi settantotto anni.
«Tengo sempre la testa attiva, sa? Ascolto la musica, cammino, non ce l’ho mica la macchina, mai guidato in vita mia! C’ho avuto due motorini, neanche un incidente, una volta una tosa mi ha preso dietro con la macchina, porco diso, son caduto ma a posto poi. Faccio la barba ogni mattina, bello pulito; ce la posso dire una cosa? Deve farsi la barba anche lei, che se va al ristorante o in pizzeria con la moglie tutti la guardano e dicono, va’ com’è a posto quello là, che bel fieü…»
Mi gratto la faccia, mi ricordo che anche mio padre aveva le guance sempre lisce e mi perdo da qualche parte nella testa. Quando mi ritrovo, Giancarlo si è tolto le scarpe e sta sorridendo sotto la visiera del cappelletto di pelle, gli occhi azzurri che aspettano che sia io, ora, a dire qualcosa.
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