Ho quest’uomo davanti. È vestito in modo ordinato, porta occhiali solidi e una barba bianca copre gran parte del viso. Sulla sedia accanto a lui, un giornale di quelli distribuiti in metropolitana e qualche documento infilato in una cartellina di plastica. Quando gli ho chiesto se potevo sedermi al suo tavolo, l’uomo ha bofonchiato qualcosa e accennato un assenso.Ora lo spio con fare distratto, poggiando la curiosità sul suo piatto, sugli occhiali, di nuovo sul piatto. Al terzo giro di sguardi obliqui, mi accorgo che sta dormendo: al tavolo, seduto, la testa che deraglia di lato. Ogni tanto la guancia incontra la spalla, allora l’uomo si sveglia, si raddrizza e, un attimo dopo, si riassopisce. Il fenomeno è ciclico, in tre minuti si addormenta e si ridesta una decina di volte, sempre perso nel vuoto, sempre con la testa penzolante.

Mi viene in mente un barbone visto l’estate scorsa alla piazzetta del parco; trascorreva il tempo su una panchina, e dormiva e si riaveva allo stesso modo. Aveva allineato sull’erba quattro bottiglie di birra da 66 che si stavano scaldando al sole. In un momento di veglia, aveva intercettato un ragazzo truccato da Bob Marley per una sigaretta. Ma il finto rasta non fumava e il barbone si era scollato di malavoglia dalla panchina in cerca di catrame nella piazzetta. Interpellati senza successo una mezza dozzina di passanti, aveva raggiunto un gruppo di nordafricani che divoravano enormi panini in attesa di rientrare al lavoro. Neanche loro fumavano; strascicando i piedi e borbottando maledizioni ignote, il barbone era tornato alla panchina per sdraiarvisi esausto. Un minuto più tardi uno dei nordafricani si era staccato dai compagni e aveva puntato il barbone con tre grossi pezzi di pane in mano. Un che di minaccioso ne gravava il passo, una volta alla panchina, lanciata un’occhiata di disprezzo alle bottiglie di birra, aveva rovesciato sul barbone il suo carico di carità. Mentre l’uomo si riaggregava al gruppo ghignante, il barbone, estratto dal dormiveglia, aveva gettato a terra il pane e si era riaccasciato sul letto di legno. A un paio di nordafricani il gesto doveva essere parso oltraggioso già che ne avevano informato l’amico, il quale aveva rapidamente rinculato verso la panchina. Lì aveva raccolto il pane e aveva cercato di ficcarlo nella bocca semiaperta del barbone. «Lasciami, vaffanculo, negro bastardo!» il barbone biascicava insulti contro una mano cattiva. L’uomo aveva spinto, tappandogli la bocca, mentre lui sputava e smadonnava: non aveva nessuna fottuta voglia di mangiare! Ma il nordafricano premeva con violenza, sobillato dalle grida di scherno dei compagni divertiti: «Mangia, vecchio di merda, mangia il pane!» Un istante dopo la tortura era cessata. Il nordafricano aveva attraversato lentamente la piazzetta, mi aveva guardato, aveva guardato gli altri ostaggi muti e si era riunito trionfante al branco. Quando il barbone aveva scagliato sul prato ciò che restava del pane, il lupo aveva fatto per muoversi, ma un paio dei suoi lo avevano trattenuto offrendogli una birra, mentre tutti i presenti trascinavano l’anima nella tana vigliacca da cui si erano sporti.

Da qualche minuto l’uomo davanti a me si è ripreso, la fase-veglia ha prevalso sulla fase-sonno. Ora che è presente, sembra sentire il mio sguardo; tuttavia non alza mai il suo, affaccendato com’è nel pettinarsi la barba, aggiustarsi gli occhiali e stirarsi il vestito da grande magazzino. La scrupolosa operazione di reinserimento nella società civile dura a lungo, poi l’uomo raccoglie giornale e cartellina e se ne va in silenzio, lasciandomi da solo, a fissare una panchina vuota del parco.