Se me lo facessero scegliere, il luogo dell’uscita di scena, non avrei dubbi, saluterei tutti sul sentiero delle sabbie scivolose – lo Sliding sands trail – circondato dai crateri dell’Haleakala: un cedimento cardiaco improvviso mentre cammino tra lava rossa e lava nera. Di certo non sceglierei di affogare nelle Olivine Pools, travolto da un’onda anomala.

Stava succedendo, a Maui.

Le Olivine Pools sono piscinette naturali concatenate, un paio delle quali circolari e profonde. Un cordone di roccia vulcanica le divide dal Pacifico, infondendo in chi vi si immerge un’idea fallace di protezione. Eppure i cartelli che le introducono sono chiari, se continuate vi assumete il rischio di subire lesioni, non date mai le spalle all’oceano, volete davvero fare di questo il vostro ultimo giorno? C’è perfino una targa in ricordo di un ragazzo morto qui anni fa. Ma sono così attraenti, verdi, tiepide, gonfie di pesci, le Olivine Pools, e così placide, l’acqua quasi non si muove… È il solito terrorismo degli americani, ossessionati dalla sicurezza, pericoli reali non ce ne sono, il ragazzo che c’è morto avrà fatto il grande con gli amici, lui sì sfidando l’oceano. E poi, davvero tutti coglioni o potenziali suicidi quelli che ci stanno sguazzando dentro, alcuni pure coi figli? Vogliamo essere così codardi da non scivolare anche noi nelle piscinette?

Pompatomi a dovere, sfodero l’armamentario completo del provetto subacqueo, scarpette da scoglio, GoPro con annesso galleggiante e occhialini da sub tarati sulla mia miopia. Salgo sul bordo di una piscinetta e al primo passo già barcollo, tanto viscido è di alghe. Calma, stiamo attenti, piantiamo bene le gambe, senza fretta. La politica funziona, pur slittando conquisto una certa stabilità, grazie alla quale attraverso indenne le vasche più basse e anonime. Nel mirino ho le due cristalline e rotonde dove non si tocca, a ridosso del cordone di roccia. Sono anche le meno affollate, in una al momento non c’è nessuno, dev’essere perché i bagnanti preferiscono sentire la terra anziché il nulla sotto i piedi. Con prudenza scavallo l’ultimo gradino e mi calo nella piscina perfetta, verde oliva, da cui il nome – Olivine Pools. Inforco gli occhialini e, come ficco la testa sott’acqua, decine di creature munite di branchie mi vengono incontro, pare un acquario ma senza vetro. Alcuni pesci sono coloratissimi, quasi finti. Altri sfoggiano forme bizzarre. Tutti posano per la mia GoPro.

Quando il fiato latita, riemergo aggrappandomi a uno spunzone di lava: sono ancora l’unico a occupare questa piscina nonostante lo spettacolo che vi alberga. Un attimo più tardi, la ragione di tanta solitudine mi investe con la persuasività di un’onda violentissima che mi sorprende alle spalle, un’onda che se n’è fregata bellamente della barriera di roccia, l’ha superata di slancio precipitandomi mio malgrado di nuovo sott’acqua.

Ora non vedo niente, soltanto schiuma, e una forza aliena mi disarticola i movimenti. Col corpo fuori controllo, imbarco acqua salata dalla bocca affamata d’aria mentre una minuscola porzione pensante di cervello mi segnala che da un momento all’altro potrei sbattere contro le pareti acuminate della piscina, non più larga di tre, quattro metri. È forse la prima volta che provo qualcosa di simile al terrore. Rassegnato al peggio, mi abbandono all’inerzia dell’onda, la cui potenza però scema lentamente fino a scorrere via nelle altre piscine. Il livello dell’acqua torna ad abbassarsi, ora posso respirare. Allungo un braccio e subito cozzo contro la parete opposta a quella cui ero aggrappato prima dello tsunami: tra lei e me ci saranno quaranta centimetri, ciò significa che sarebbe bastato un secondo in più di furia oceanica per fracassarmi un centinaio di ossa, ad andarmi bene.

Invece, non si sa come, sono illeso. E vivo. Il mio stupore è condiviso dagli sguardi di chi mi gravita intorno, increduli di fronte a un tale miracolo: al contrario di me loro l’onda l’hanno vista arrivare, l’hanno vista abbattersi sulla mia schiena, spingermi giù, paralizzarmi e risputarmi in un tempo che a me è parso eterno, ma non dev’essere durato più di dieci secondi. Mentre mi isso fuori dalla vasca, uno degli spettatori indica eccitato una ragazza bionda in piedi sul bordo interno della piscina maledetta: è sua figlia e ha ripreso la scena con la fotocamera, ci sarò anch’io, sicuramente.

L’uomo si chiama Dave, viene dal Canada e pare indifferente al fatto che sto realizzando a fatica di essere ancora al mondo, per lui l’evento interessante sono gli scatti della figlia. Sabine, questo il nome della reporter, si avvicina armata di Canon: ebbene sì, mi ha filmato, e per dimostrarmelo schiaccia frenetica il pulsante del play. Si squaderna l’intera sequenza, io che un istante prima ci sono, io che un istante dopo non ci sono più, io che ricompaio a mezzo metro dalla tragedia. Mi guardo come se non fossi io quello scampato alla morte, poi mi ascolto comunicare l’indirizzo di posta elettronica a Sabine, affinché mi mandi il prezioso documento visivo.

Nel frattempo l’atmosfera si è normalizzata, sono tornati tutti nelle proprie piscinette e anche Dave sembra rasserenato: gli ho detto di essere italiano e la sua preoccupazione ora è raccontarmi di quando lui, la moglie e Sabine hanno visitato la città di Romeo e Giulietta, come si chiamava, Verina? Virana? Oh yes… Venora!