
righe sparse
Usare le parole per descrivere i silenzi.
L’isola muta non è che il racconto, soggettivo, emozionale, disordinato, di un viaggio tra le rughe antiche della Sardegna. Mi viene sempre difficile scegliermi ma credo che questi dieci passaggi estratti dal libro ne rappresentino bene l’essenza.
Il primo regalo che i sensi ricevono dalla Sardegna è il profumo di mirto e ginepro appena sbarcati a Olbia. Il silenzio arriva dopo, uscendo dalla città: gradualmente si smorza il chiasso in primo piano – le sirene dei traghetti, il traffico d’auto in fuga dal porto – poi scema l’eco dei suoni lontani – la musica nei locali, le urla dei bambini sulla ruota panoramica – infine si spegne il brusio urbano di sottofondo e, a zavorrare l’aria, rimane solo il motore dello scooter che lambisce la macchia.
Il silenzio di Gorropu è minaccioso e amorevole insieme. Come se nel grembo scuro delle torri dolomitiche non potesse accadere nulla di spiacevole, come se un dio ben nascosto tenesse lontano il demonio – a suffragare tale protezione ci vorrebbe una croce, come in montagna, Cristo è con te, vai avanti senza paura. Ma a Gorropu Dio non ha bisogno di simboli, a Gorropu Dio è ovunque.
Dalle scogliere di Capo San Marco, ora di nuovo basse, emergono tre spiagge, divise da scaglie di roccia. La prima è impraticabile, grandi massi neri la occupano tutta. La seconda è un tappeto di alghe puzzolenti. La terza è la spiaggia: trecento metri di farina grigia sotto un muro di arenaria ingiallata dal sole calante.
L’incontro con i cavalli di Gesturi si fa intimo, mi avvicino a non più di dieci metri e loro continuano a brucare, indifferenti alla mia petulanza. Ora ne vedo bene il manto lucido, nero come il carbone o granata o quasi rosso; ne sento lo sbuffare, ne annuso l’afrore solido. Imprudente e molesto mi avvicino ancora, ma loro restano lì, come se non ci fossi. Poi il più possente, quello nero come il carbone, parte al passo e gli altri si accodano.
Sa Stiddiosa. Già è bellissima la genesi del nome: stiddia in sardo sta per “stilla”, “goccia”. Sono infatti le gocce d’acqua leggera, che da una rupe calcarea alta una ventina di metri precipitano dentro una piscina smeraldo opaco, a caratterizzare questa ruga di terra, scavata tra le montagne di Seulo dal fiume Flumendosa. Ancora più bello, rigenerante è farsi bagnare da quelle gocce, una pioggia fresca e fine, da starci sotto ore.
Una prima striscia di granelli dorati inumiditi dalle onde, una seconda di ciottoli tondi, una pedana di lastroni di pietra che si addossano a una parete rocciosa verniciata di ocra e ardesia. E sopra, a picco sul mare, una cresta di rocce grigio-azzurre culminanti in un monolite triangolare alto una trentina di metri, come conficcato nella costa da un ciclope omerico. Con elementi grafici e colori così vividi, incongrui, Cala Goloritzé ricorda un quadro di Dalì.
La tana di Maria si chiama Arroccas de is istellas, la rocca delle stelle. Già. Non credo di aver mai visto tanti luccichii bianchi nella notte come dal patio del suo B&B. Avete presente la carta blu piena di puntini gialli che si usa per fare il cielo del presepio? Ecco, quella roba lì, ma reale. Le stelle da Maria ti cascano addosso a milioni e le vedi tutte, perché non c’è una luce artificiale nel raggio di chilometri, niente di umano che possa smorzarne o corromperne lo sfavillio.
Il turista-consumatore, quello che mercanteggia col ristorante, col noleggio di gommoni, col negozio di ceramiche, indifferente alla persona, alla storia nascosta dietro il servizio offerto, quel turista il sardo lo ignora; aspetta che mangi, nuoti, compri e riprenda il traghetto per il continente. Il turista-esploratore, invece, merita attenzione, è qui per scippargli un pezzetto d’anima e di terra. E l’anima e la terra sono tutto ciò che ha.
È un tramonto anomalo, quello su Chia. Non un sole rosso che affoga nel mare come sarà a Capo San Marco o l’incendio in technicolor di Sant’Antioco. Piuttosto un’infinita scia giallo-viola proveniente dall’interno, pronta a riflettersi nella salina di Su Giudeu in un lisergico paesaggio lunare. Si fa sera in un attimo quaggiù e ci si vorrebbe dormire sotto questo cielo muto di ametista.
Sull’Orientale sarda mi sento affidato al caso: non tanto per le folate che scuotono il Beverly o per le pietre che si staccano dalla roccia; neanche per le capre che sonnecchiano invisibili ai lati della strada e qualcuna la attraversa pure. Sono affidato al caso perché mi percepisco ininfluente, posso raddrizzare lo scooter, sterzare di fronte a un sasso o a un animale, aggrapparmi alla strada anche se scivolosa, ma stasera sono la notte e la montagna a comandare.
Se queste righe sparse ti sono piaciute, è possibile che ti piacciano molte delle 288 pagine del libro.
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righe sparse
Usare le parole per descrivere i silenzi.
L’isola muta non è che il racconto, soggettivo, emozionale, disordinato, di un viaggio tra le rughe antiche della Sardegna. Mi viene sempre difficile scegliermi ma credo che questi dieci passaggi estratti dal libro ne rappresentino bene l’essenza.

Il primo regalo che i sensi ricevono dalla Sardegna è il profumo di mirto e ginepro appena sbarcati a Olbia. Il silenzio arriva dopo, uscendo dalla città: gradualmente si smorza il chiasso in primo piano – le sirene dei traghetti, il traffico d’auto in fuga dal porto – poi scema l’eco dei suoni lontani – la musica nei locali, le urla dei bambini sulla ruota panoramica – infine si spegne il brusio urbano di sottofondo e, a zavorrare l’aria, rimane solo il motore dello scooter che lambisce la macchia.

Il silenzio di Gorropu è minaccioso e amorevole insieme. Come se nel grembo scuro delle torri dolomitiche non potesse accadere nulla di spiacevole, come se un dio ben nascosto tenesse lontano il demonio – a suffragare tale protezione ci vorrebbe una croce, come in montagna, Cristo è con te, vai avanti senza paura. Ma a Gorropu Dio non ha bisogno di simboli, a Gorropu Dio è ovunque.

Dalle scogliere di Capo San Marco, ora di nuovo basse, emergono tre spiagge, divise da scaglie di roccia. La prima è impraticabile, grandi massi neri la occupano tutta. La seconda è un tappeto di alghe puzzolenti. La terza è la spiaggia: trecento metri di farina grigia sotto un muro di arenaria ingiallata dal sole calante.

L’incontro con i cavalli di Gesturi si fa intimo, mi avvicino a non più di dieci metri e loro continuano a brucare, indifferenti alla mia petulanza. Ora ne vedo bene il manto lucido, nero come il carbone o granata o quasi rosso; ne sento lo sbuffare, ne annuso l’afrore solido. Imprudente e molesto mi avvicino ancora, ma loro restano lì, come se non ci fossi. Poi il più possente, quello nero come il carbone, parte al passo e gli altri si accodano.

Sa Stiddiosa. Già è bellissima la genesi del nome: stiddia in sardo sta per “stilla”, “goccia”. Sono infatti le gocce d’acqua leggera, che da una rupe calcarea alta una ventina di metri precipitano dentro una piscina smeraldo opaco, a caratterizzare questa ruga di terra, scavata tra le montagne di Seulo dal fiume Flumendosa. Ancora più bello, rigenerante è farsi bagnare da quelle gocce, una pioggia fresca e fine, da starci sotto ore.

Una prima striscia di granelli dorati inumiditi dalle onde, una seconda di ciottoli tondi, una pedana di lastroni di pietra che si addossano a una parete rocciosa verniciata di ocra e ardesia. E sopra, a picco sul mare, una cresta di rocce grigio-azzurre culminanti in un monolite triangolare alto una trentina di metri, come conficcato nella costa da un ciclope omerico. Con elementi grafici e colori così vividi, incongrui, Cala Goloritzé ricorda un quadro di Dalì.

La tana di Maria si chiama Arroccas de is istellas, la rocca delle stelle. Già. Non credo di aver mai visto tanti luccichii bianchi nella notte come dal patio del suo B&B. Avete presente la carta blu piena di puntini gialli che si usa per fare il cielo del presepio? Ecco, quella roba lì, ma reale. Le stelle da Maria ti cascano addosso a milioni e le vedi tutte, perché non c’è una luce artificiale nel raggio di chilometri, niente di umano che possa smorzarne o corromperne lo sfavillio.

Il turista-consumatore, quello che mercanteggia col ristorante, col noleggio di gommoni, col negozio di ceramiche, indifferente alla persona, alla storia nascosta dietro il servizio offerto, quel turista il sardo lo ignora; aspetta che mangi, nuoti, compri e riprenda il traghetto per il continente. Il turista-esploratore, invece, merita attenzione, è qui per scippargli un pezzetto d’anima e di terra. E l’anima e la terra sono tutto ciò che ha.

È un tramonto anomalo, quello su Chia. Non un sole rosso che affoga nel mare come sarà a Capo San Marco o l’incendio in technicolor di Sant’Antioco. Piuttosto un’infinita scia giallo-viola proveniente dall’interno, pronta a riflettersi nella salina di Su Giudeu in un lisergico paesaggio lunare. Si fa sera in un attimo quaggiù e ci si vorrebbe dormire sotto questo cielo muto di ametista.

Sull’Orientale sarda mi sento affidato al caso: non tanto per le folate che scuotono il Beverly o per le pietre che si staccano dalla roccia; neanche per le capre che sonnecchiano invisibili ai lati della strada e qualcuna la attraversa pure. Sono affidato al caso perché mi percepisco ininfluente, posso raddrizzare lo scooter, sterzare di fronte a un sasso o a un animale, aggrapparmi alla strada anche se scivolosa, ma stasera sono la notte e la montagna a comandare.

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