Alle dieci e mezza aveva già voglia di tornarsene a casa. In ufficio da un’ora scarsa, dopo l’iniziale, illusorio cazzeggio alla macchinetta del caffè con Pascucci – il biscazziere dei conti, l’altisonante CFO di oggi – inesorabile cominciava la parata di facce livide e torve, messaggere di un’azienda boccheggiante. Tutte le mattine si chiedeva se quell’universo di stolti percepisse anche solo una minuscola parte del disprezzo che provava per loro. O se fosse così abile da intrappolare il rancore prima che guizzasse da sotto la pelle come una murena in caccia.

Nelle ultime settimane la filiale milanese della Pharmanchega, colosso iberico di farmaci generici dove lavorava da meno di un anno, aveva virato con decisione verso una prevedibilissima implosione finanziaria. I licenziamenti, camuffati da accordi di buonuscita per ragioni giuridiche, erano all’ordine del giorno e lui ne curava la formalizzazione nel ruolo, un tempo invidiato e ora compatito, di Responsabile delle Risorse Umane.

Non era stato sempre così. Quando era entrato le pareti divisorie di cartongesso avorio trasudavano ebbrezza, la costola italica della Pharmanchega aveva appena conquistato il 4% del mercato e finalmente c’era un bell’uomo dalla voce profonda cui affidare la valorizzazione del personale. Per mesi dalla casa madre di Toledo era echeggiato il mantra di assumere, assumere e ancora assumere; l’obiettivo era schierare un esercito di forza vendita tanto capillare da occupare ogni farmacia in ogni più piccola borgata. A lui i colloqui di selezione piacevano, stimolavano il suo talento chirurgico nell’indovinare la personalità di un essere umano anche solo da come respira. E si stava impratichendo nello spagnolo, unico strumento di comunicazione in un’impresa padronale del tutto disinteressata, perché inabile, all’apprendimento della lingua inglese.

Quell’incarico rappresentava la sua ultima chiamata: da cinque anni annaspava nelle Risorse Umane e le ipotesi di carriera andavano scemando con l’imbiancarsi delle basette. Non che non ci dormisse la notte, le scalate al potere non lo hanno mai eccitato. Sennonché all’epoca era impregnato di collosa convenzionalità, sicché più prestigio avesse raccolto sul lavoro più avrebbe acquisito valore come uomo; e subiva ancora il plagio di subdoli condizionamenti familiari che imponevano a un quarantenne laureato e intellettivamente prestante di puntare in alto, molto in alto. Avesse soltanto riflettuto più a lungo sulla sua storia professionale – nove aziende in undici anni, pressoché totale inettitudine nel gestire i rapporti con colleghi e capi in virtù di una patetica e irrinunciabile indipendenza di pensiero, approssimazione nelle competenze occultata a fatica grazie all’istrionica, reiterata propaganda di se stesso – avrebbe continuato a elaborare buste paga nella società di gestione di un noto portale di notizie, sgravato da responsabilità, libero di dedicarsi alla sua neonata struttura ricettiva.

Già: col sorprendente supporto morale – ed economico – dei suoi aveva avviato un bed&breakfast sul Lago Maggiore. Una decisione salvifica presa molto prima di accettare la seducente proposta spagnola e figlia della frequentazione di adorabili chambres d’hotes durante le vacanze estive. Nelle stanze di ville bretoni e normanne, spesso d’epoca, spesso maestose e appollaiate sulle colline, aveva sentito scorrere una compiaciuta serenità, incarnata alla perfezione dalle anziane padrone e dalla loro amabile accoglienza. Un soggiorno alla volta aveva cominciato a immaginare se stesso nell’atto di aprire la porta di casa ai turisti sorridenti, non più ospite da ricevere bensì ospite che riceve. Finché qualcosa lo aveva obbligato a trasformare la visione in realtà, qualcosa d’impulsivo eppure lucido, che aveva ben chiaro come il transito per nove aziende in undici anni, tra patologiche incompatibilità relazionali, conoscenze fittizie e ambizioni in disarmo, non ne facesse l’inquilino ideale di quell’acquario per umani chiamato ufficio. Oltre a regalargli un orizzonte professionale alternativo alla cattività di una scrivania circondata da squali, la scommessa conteneva un’insospettabile e non del tutto consapevole lungimiranza, la prospettiva di svincolarsi dal paesone che lo maltrattava da sette anni: in pratica una sorta di preventivo piano di fuga da Legnano.

Individuare la casa giusta nel posto giusto era stata operazione lunga e difficile, giacché non sapeva cosa stesse cercando, piuttosto cosa non stesse cercando: non voleva un appartamento, non voleva una villa, non voleva un paese anonimo o sovraffollato o troppo distante dalla città di sua moglie. Dopo decine di escursioni insieme ad agenti immobiliari sempre più desolati, un pomeriggio di ottobre del 2007 aveva varcato i confini di un borgo d’altri tempi e si era arrampicato fino a una corte nei pressi della chiesa: un recinto di legno sormontato da tuie nascondeva un giardino e un edificio a due piani, vecchio di un secolo, dalla struttura irregolare e magnetica. Aveva trovato Meina, aveva trovato Villanuvola, o meglio, Villanuvola aveva trovato lui.

Aveva impiegato un semestre per agghindare la casa a bed&breakfast, nei periodi di traffico più intenso c’erano stati anche dodici artigiani a intubare, lamare, intonacare, piastrellare, stuccare, elettrificare, carteggiare, beolare, seminare, inchiodare. Non era stato semplice neppure districarsi tra conformità e autorizzazioni, così come avvitare i mobili svedesi in solitaria. Ma la mattina del 21 giugno 2008 Villanuvola dava il benvenuto all’estate e ai primi degli oltre mille ospiti che si sarebbero avvicendati in tredici anni: esausto e raggiante, sentiva di aver creato una cosa solida, tangibile, sua.

Villanuvola Bed&Breakfast

Nei successivi quattro mesi si era reinventato e sdoppiato. Dal lunedì al venerdì era il diligente impiegato di una consolidata realtà d’informazione digitale; da venerdì a domenica l’affabile gestore di un B&B sul Lago Maggiore. Le due attività passeggiavano garrule a braccetto senza pestarsi mai i piedi. Poi lo aveva contattato un cacciatore di teste, lusingandolo, solleticandone le residue velleità di ammirare il proprio nome sopra un biglietto da visita, ed era finito a parlare in un castigliano abborracciato di come valutare il rendimento degli agenti nella fornitura di paracetamolo agli ospedali.

Le ultime settimane nella filiale italiana della Pharmanchega furono drammatiche. L’incongruo esercito di forza vendita aveva perso ogni battaglia e si stava assottigliando, alle decine di diserzioni si aggiungevano esecuzioni sommarie di cui era inevitabilmente lui il cecchino designato. Il comandante in capo si arrabattava nel rassicurare i re spagnoli, i luogotenenti locali e ancor più se stesso che il vento sarebbe presto cambiato. Ma andava irrigidendosi, incapace di ammettere il naufragio delle strategie di conquista del territorio e sordo ai consigli di prudenza, di cui intuiva la ragionevolezza, ma che interpretava come un’intollerabile minaccia alla propria autorità. Sembrava cercare deliberatamente lo scontro frontale coi collaboratori così da punirli per insubordinazione.

Per risparmiare sull’affitto gli uffici milanesi della Pharmanchega furono spostati da Centrale a Lambrate, gravando il suo pendolarismo di un’ora e un quarto di carro bestiame, prima su rotaia e poi su gomma, da ripetere mattina e sera, cinque giorni alla settimana. Lo smottamento dell’avamposto lavorativo si sommò alla malattia senza ritorno di sua madre e all’eclissi gelida del sole coniugale. Per un po’ il coperchio resse, almeno finché l’acqua non spinse. Poi le bolle crebbero, la pressione fu troppa e saltò tutto; dopo essersi garantito l’uscita più redditizia salutò squali e squaletti dell’acquario e schizzò fuori dalla Pharmanchega con un solo desiderio nel cuore: imboccare la A8, spalancare Villanuvola al mondo e provare a vivere, di nuovo.